«L'essere cerca, non d'essere riconosciuto, ma d'essere contestato: va per esistere verso l'altro che lo contesta e talvolta lo nega, per cominciare a essere soltanto in questa privazione che lo rende cosciente (è questa l'origine della coscienza) dell'impossibilità di essere se stessi, di esistere come ipse o, se si vuole, come individuo separato: così forse e-sisterà, provando se stesso come esteriorità fondamentale, o come esistenza senza riserva infranta, il cui comporsi è solo in forma di un decomporsi, costantemente, violentemente e silenziosamente. Così l'esistenza di ogni essere fa appello all'altro o a una pluralità d'altri. Fa appello, con questo, a una comunità» (M. Blanchot,La comunità inconfessabile [1983], Milano, Feltrinelli, 1984, pp. 15-6).
I sistemi sociali si manifestano
in modo controfattuale, ossia generando al proprio interno la propria
autonegazione e la propria autodestituzione: compiendo il movimento paradossale
di affermare simultaneamente se stessi e il proprio contrario. Tali sistemi,
cioè, possiedono un'identità solo in virtù della propria capacità di definire
dei limiti e delle differenze.
La differenza designa
l'interdetto: il solco del confine che, troppo marcato, conduce alla violenza
senza freni, al bisogno di sterminare tutto intorno a sé. E, troppo
evanescente, conduce alla follia: alla dissoluzione totale della propria
identità e alla relativa impossibilità di stabilire una qualsiasi comunicazione
con l'altro da sé.
Dalla comprensione di ciò
proviene la concezione hobbesiana della sovranità per la quale i cittadini si
assomigliano troppo tra di loro, sono troppo esposti al rischio della mimesi ed
è normale, quindi, che siano reciprocamente diffidenti. Un rapporto di fiducia
è possibile solo se è mediato da un terzo al di sopra delle parti, cosa che in
Hobbes corrisponde alla forma del Leviatano. Il rapporto sociale si configura
così come una relazione tra soggetti nella quale può fungere da mediazione solo
qualcosa che non coincide con loro e ad essi non appartiene in alcun modo.
É questo che fa problema.
Ciò che è aggiunto al rapporto
tra individui che si rispecchiano in modo omogeneo nei propri simili è una
punteggiatura: ciò che fa che il soggetto, invece di annichilirsi nella
simbiosi o nel conflitto estremo con la sua replica speculare, entri in una
relazione in grado di tramutare la lotta in gioco, l'antagonismo irriducibile
in disputa amichevole. Ma, per essere maneggiata da chi ne fa uso, questa
punteggiatura non può evitare di incarnarsi in una forma materiale
identificabile dagli attori sociali, di incorporarsi in dei significati, di
trasformare i suoi segni puramente diacritici in simboli semanticamente attivi.
Nei sistemi sociali a basso grado
di differenziazione, l'omogeneità prevalente e le gerarchie rigide hanno
permesso un riconoscimento più o meno agevole della forma terza. Paradigma di
una metafora dell'esistenza, la figura del terzo si è condensata di volta in
volta sul diverso per eccesso o per difetto, sul sovrano, ma anche sul re di
carnevale, il briccone divino, il santo, il folle, il malato, l'escluso, il
parìa.
L'avvento della civiltà
industriale, altamente differenziata e secolarizzata, ha portato con sé la
nascita della metropoli, luogo di concentrazione dell'eterogeneità, dei molti
dissimili e della folla indistinta, e ha generato una crisi radicale delle
forme di produzione della terzietà. La proliferazione delle differenze ha reso
sempre più difficile riprodurre quel processo di costruzione della mediazione
in grado di assicurare l'esistenza stessa degli insiemi sociali.
Una prima risposta a questa
difficoltà è venuta dalla moltiplicazione molecolare dei processi mediatori,
dalla loro diversificazione in base alla dimensione su cui devono intervenire e
dall'accettazione della loro pluralità.
Le forme della mediazione sociale
introducono, così, nella società, la sfera del gioco politico. Un tipo di gioco
che, oggigiorno, acquisisce legittimità solo a prezzo di essere preso in considerazione
come uno dei vettori dell'azione sociale e non come ciò che vi sovraintende.
Se, infatti, possiamo dire con
Carl Schmitt che «sovrano è chi decide sullo stato d'eccezione» [1]
: sovrano è, cioè, chi ha il potere di proclamare la condizione d'emergenza e
di sospendere così, legittimamente, lo stato di diritto. E che la forma della
sovranità si pone, quindi, al contempo all'esterno e all'interno della legge al
fine di marcare i limiti simbolico-normativi dell'ordinamento e della sua
legittimità di governo. Tuttavia, attualmente, si vive nell'impossibilità di
distinguere tra caso normale e caso d'eccezione perché, a causa dell'immenso
sviluppo tecnologico e della velocità ch'esso ha impresso ai processi
socio-politici del sistema-mondo, il caso eccezionale si presenta ad ogni
istante e, di conseguenza, l'eccezione è la regola.
Allora, in seguito a ciò, è
possibile dire che il caso d'eccezione non esiste più e che il posto del
sovrano è vuoto: è il vuoto. In effetti, da molto tempo siamo legati a questa
singolarità della democrazia moderna: di tutti i regimi che conosciamo,
ques'ultima costituisce il solo in cui sia data una rappresentazione del potere
che attesta ch'esso risiede in un luogo vuoto, ch'esso si limita a mantenere lo
scarto tra il simbolico e il reale. [2]
Questo significa che il luogo
della fondazione razionale della politica è imploso e che il politico non
esiste che come antipolitico o impolitico come direbbe Thomas Mann.
Detto altrimenti, la questione
che si pone è che l'intervento politico è azione solamente nel senso
d'interpretazione, interruzione, frattura, taglio: costruzione di una ipotesi
razionale capace di misurare l'occasionalità dell'evento sulla decisione
politica.
La politica, quindi, anche se
deve essere dotata di senso per gli attori, non può né deve dare risposte
totalizzanti di senso. Pluralità delle forme di mediazione simbolica significa,
infatti, che nessun bene comune, nessun fine specifico, nessun senso ulteriore
sono più in grado di operare una sintesi dialettica del tutto e delle parti.
Come scrive Niklas Luhmann: «non vi sono più posizioni dovute allo status e legittimate senza concorrenza a
parlare per l'essere, a tradurre res
in verba [...]
non vi è più alcun punto di vista (ad esempio quello religioso) unanimemente
e costantemente condiviso.» [3]
L'uno e il due non possono più ricomporsi su
di un terzo livello che li comprenda entrambi: devono accettare di non essere
omogenei né commensurabili.
Venendo a mancare un punto di
vista unanimemente e costantemente condiviso, la relazione comunitaria che
unisce l'individuo singolare con il gruppo sociale si dissolve nella semplice
comunicazione: incontro contingente di esistenze nell'esperienza comune che è
congiunzione e contestazione reciproca. Incontro con l'altro, il non io, lo
sconosciuto, l'inconoscibile, che allo stesso tempo alimenta la nostra vita e
manda in frantumi l'universo conosciuto che ci siamo costruiti.
Comunicare significa stabilire
dei limiti, costruire una punteggiatura che permetta di distinguersi dagli
altri e, al contempo, elaborarne l'alterità: attraversare l'abisso che separa
il proprio e l'altrui e farli dialogare. Nel prendere forma, i limiti
fuoriescono da una condizione di neutralità e si condensano su dei significati.
Produrre tali limiti vuol dire, infatti, simbolizzare la realtà: imputarle
delle qualità specifiche e delle proprietà intrinseche.
Questo processo non può essere
aggirato.
Come la fiamma, un limite può
esistere solo su di un sostegno. Negare ciò, e cercare di pensare dei legami
sociali non simbolici, si riduce a considerare come reale l'esistenza del fuoco
fatuo: una fiamma che non brucia alcun corpo. Il che, generalmente, si traduce
nello spegnere il fuoco e nel trasformare il tizzone ardente in un bastone con
cui picchiarsi reciprocamente.
Dare forma a dei limiti
significa, quindi, prendersi cura del fuoco sacro, intrattenerlo
indefinitamente, mantenerlo sempre acceso: impedire assolutamente che
l'alleanza di Hermès e di Hestia venga meno: «l'associazione Hermès-Hestia
riveste dunque un significato propriamente religioso. [...]
Hestia, il dentro, il chiuso, il fisso, il ripiegamento del gruppo umano
su se stesso; Hermès, il fuori, l'apertura, il contatto, la mobilità, il
contatto con l'altro da sé.» [4]
Ma, come fare in modo che il
collante che tiene uniti Hermès ed Hestia, l'attribuzione di un significato e
di un valore al limite, la sua trasformazione in una bandiera non diventino il
bastione di una fortezza da espugnare a tutti i costi o dalla quale gettare
olio bollente sugli altri, sui nemici?
Se non è possibile separare la punteggiatura dalla
simbolizzazione, si può almeno diluire la prepotenza dei suoi significati,
smussare la rigidità dei suoi percorsi, alleggerire il peso dei suoi traguardi:
accettare di assumere solo un potere che sia fatto di un abbandono del potere,
non prendere sul serio la forza del potere, scompaginarne il sistema
simbolico-normativo, disfarne il tessuto compatto, moltiplicarne le
smagliature, renderlo poroso.
[1] Schmitt C., Teologia politica [1922], id. Le
categorie del 'politico', G. Miglio e P. Schiera edd., Bologna, Il Mulino,
1972, p. 33.
[2] Cfr. Lefort C., L'invention démocratique, Paris, Fayard,
1981.
[3] Luhmann N., L'ecologia del non-sapere [1992], id., Osservazioni sul moderno, tr. it. di F. Pistolato, Armando, Roma,
1995, pp. 108 e 115.
[4] Vernant J.-P., Mythe et pensée chez les Grecs - Études de
psichologie historique, I, Paris, Maspero, 1965, pp. 125 e 128.
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