lundi 12 février 2018

Carlo Grassi, Pluralità delle forme di mediazione e potere dei limiti


«L'essere cerca, non d'essere riconosciuto, ma d'essere contestato: va per esistere verso l'altro che lo contesta e talvolta lo nega, per cominciare a essere soltanto in questa privazione che lo rende cosciente (è questa l'origine della coscienza) dell'impossibilità di essere se stessi, di esistere come ipse  o, se si vuole, come individuo separato: così forse e-sisterà, provando se stesso come esteriorità fondamentale, o come esistenza senza riserva infranta, il cui comporsi è solo in forma di un decomporsi, costantemente, violentemente e silenziosamente. Così l'esistenza di ogni essere fa appello all'altro o a una pluralità d'altri. Fa appello, con questo, a una comunità» (M. Blanchot,La comunità inconfessabile [1983], Milano, Feltrinelli, 1984, pp. 15-6).


I sistemi sociali si manifestano in modo controfattuale, ossia generando al proprio interno la propria autonegazione e la propria autodestituzione: compiendo il movimento paradossale di affermare simultaneamente se stessi e il proprio contrario. Tali sistemi, cioè, possiedono un'identità solo in virtù della propria capacità di definire dei limiti e delle differenze.
La differenza designa l'interdetto: il solco del confine che, troppo marcato, conduce alla violenza senza freni, al bisogno di sterminare tutto intorno a sé. E, troppo evanescente, conduce alla follia: alla dissoluzione totale della propria identità e alla relativa impossibilità di stabilire una qualsiasi comunicazione con l'altro da sé.
Dalla comprensione di ciò proviene la concezione hobbesiana della sovranità per la quale i cittadini si assomigliano troppo tra di loro, sono troppo esposti al rischio della mimesi ed è normale, quindi, che siano reciprocamente diffidenti. Un rapporto di fiducia è possibile solo se è mediato da un terzo al di sopra delle parti, cosa che in Hobbes corrisponde alla forma del Leviatano. Il rapporto sociale si configura così come una relazione tra soggetti nella quale può fungere da mediazione solo qualcosa che non coincide con loro e ad essi non appartiene in alcun modo.
É questo che fa problema.
Ciò che è aggiunto al rapporto tra individui che si rispecchiano in modo omogeneo nei propri simili è una punteggiatura: ciò che fa che il soggetto, invece di annichilirsi nella simbiosi o nel conflitto estremo con la sua replica speculare, entri in una relazione in grado di tramutare la lotta in gioco, l'antagonismo irriducibile in disputa amichevole. Ma, per essere maneggiata da chi ne fa uso, questa punteggiatura non può evitare di incarnarsi in una forma materiale identificabile dagli attori sociali, di incorporarsi in dei significati, di trasformare i suoi segni puramente diacritici in simboli semanticamente attivi.
Nei sistemi sociali a basso grado di differenziazione, l'omogeneità prevalente e le gerarchie rigide hanno permesso un riconoscimento più o meno agevole della forma terza. Paradigma di una metafora dell'esistenza, la figura del terzo si è condensata di volta in volta sul diverso per eccesso o per difetto, sul sovrano, ma anche sul re di carnevale, il briccone divino, il santo, il folle, il malato, l'escluso, il parìa.
L'avvento della civiltà industriale, altamente differenziata e secolarizzata, ha portato con sé la nascita della metropoli, luogo di concentrazione dell'eterogeneità, dei molti dissimili e della folla indistinta, e ha generato una crisi radicale delle forme di produzione della terzietà. La proliferazione delle differenze ha reso sempre più difficile riprodurre quel processo di costruzione della mediazione in grado di assicurare l'esistenza stessa degli insiemi sociali.
Una prima risposta a questa difficoltà è venuta dalla moltiplicazione molecolare dei processi mediatori, dalla loro diversificazione in base alla dimensione su cui devono intervenire e dall'accettazione della loro pluralità.
Le forme della mediazione sociale introducono, così, nella società, la sfera del gioco politico. Un tipo di gioco che, oggigiorno, acquisisce legittimità solo a prezzo di essere preso in considerazione come uno dei vettori dell'azione sociale e non come ciò che vi sovraintende.
Se, infatti, possiamo dire con Carl Schmitt che «sovrano è chi decide sullo stato d'eccezione» [1] : sovrano è, cioè, chi ha il potere di proclamare la condizione d'emergenza e di sospendere così, legittimamente, lo stato di diritto. E che la forma della sovranità si pone, quindi, al contempo all'esterno e all'interno della legge al fine di marcare i limiti simbolico-normativi dell'ordinamento e della sua legittimità di governo. Tuttavia, attualmente, si vive nell'impossibilità di distinguere tra caso normale e caso d'eccezione perché, a causa dell'immenso sviluppo tecnologico e della velocità ch'esso ha impresso ai processi socio-politici del sistema-mondo, il caso eccezionale si presenta ad ogni istante e, di conseguenza, l'eccezione è la regola.
Allora, in seguito a ciò, è possibile dire che il caso d'eccezione non esiste più e che il posto del sovrano è vuoto: è il vuoto. In effetti, da molto tempo siamo legati a questa singolarità della democrazia moderna: di tutti i regimi che conosciamo, ques'ultima costituisce il solo in cui sia data una rappresentazione del potere che attesta ch'esso risiede in un luogo vuoto, ch'esso si limita a mantenere lo scarto tra il simbolico e il reale. [2]
Questo significa che il luogo della fondazione razionale della politica è imploso e che il politico non esiste che come antipolitico o impolitico come direbbe Thomas Mann.
Detto altrimenti, la questione che si pone è che l'intervento politico è azione solamente nel senso d'interpretazione, interruzione, frattura, taglio: costruzione di una ipotesi razionale capace di misurare l'occasionalità dell'evento sulla decisione politica.
La politica, quindi, anche se deve essere dotata di senso per gli attori, non può né deve dare risposte totalizzanti di senso. Pluralità delle forme di mediazione simbolica significa, infatti, che nessun bene comune, nessun fine specifico, nessun senso ulteriore sono più in grado di operare una sintesi dialettica del tutto e delle parti. Come scrive Niklas Luhmann: «non vi sono più posizioni dovute allo status e legittimate senza concorrenza a parlare per l'essere, a tradurre res in verba   [...]   non vi è più alcun punto di vista (ad esempio quello religioso) unanimemente e costantemente condiviso.» [3]
 L'uno e il due non possono più ricomporsi su di un terzo livello che li comprenda entrambi: devono accettare di non essere omogenei né commensurabili.
Venendo a mancare un punto di vista unanimemente e costantemente condiviso, la relazione comunitaria che unisce l'individuo singolare con il gruppo sociale si dissolve nella semplice comunicazione: incontro contingente di esistenze nell'esperienza comune che è congiunzione e contestazione reciproca. Incontro con l'altro, il non io, lo sconosciuto, l'inconoscibile, che allo stesso tempo alimenta la nostra vita e manda in frantumi l'universo conosciuto che ci siamo costruiti.
Comunicare significa stabilire dei limiti, costruire una punteggiatura che permetta di distinguersi dagli altri e, al contempo, elaborarne l'alterità: attraversare l'abisso che separa il proprio e l'altrui e farli dialogare. Nel prendere forma, i limiti fuoriescono da una condizione di neutralità e si condensano su dei significati. Produrre tali limiti vuol dire, infatti, simbolizzare la realtà: imputarle delle qualità specifiche e delle proprietà intrinseche.
Questo processo non può essere aggirato.
Come la fiamma, un limite può esistere solo su di un sostegno. Negare ciò, e cercare di pensare dei legami sociali non simbolici, si riduce a considerare come reale l'esistenza del fuoco fatuo: una fiamma che non brucia alcun corpo. Il che, generalmente, si traduce nello spegnere il fuoco e nel trasformare il tizzone ardente in un bastone con cui picchiarsi reciprocamente.
Dare forma a dei limiti significa, quindi, prendersi cura del fuoco sacro, intrattenerlo indefinitamente, mantenerlo sempre acceso: impedire assolutamente che l'alleanza di Hermès e di Hestia venga meno: «l'associazione Hermès-Hestia riveste dunque un significato propriamente religioso.   [...]   Hestia, il dentro, il chiuso, il fisso, il ripiegamento del gruppo umano su se stesso; Hermès, il fuori, l'apertura, il contatto, la mobilità, il contatto con l'altro da sé.» [4]
Ma, come fare in modo che il collante che tiene uniti Hermès ed Hestia, l'attribuzione di un significato e di un valore al limite, la sua trasformazione in una bandiera non diventino il bastione di una fortezza da espugnare a tutti i costi o dalla quale gettare olio bollente sugli altri, sui nemici?
Se non è possibile separare la punteggiatura dalla simbolizzazione, si può almeno diluire la prepotenza dei suoi significati, smussare la rigidità dei suoi percorsi, alleggerire il peso dei suoi traguardi: accettare di assumere solo un potere che sia fatto di un abbandono del potere, non prendere sul serio la forza del potere, scompaginarne il sistema simbolico-normativo, disfarne il tessuto compatto, moltiplicarne le smagliature, renderlo poroso.





[1] Schmitt C., Teologia politica [1922], id. Le categorie del 'politico', G. Miglio e P. Schiera edd., Bologna, Il Mulino, 1972, p. 33.
[2] Cfr. Lefort C., L'invention démocratique, Paris, Fayard, 1981.
[3] Luhmann N., L'ecologia del non-sapere [1992], id., Osservazioni sul moderno, tr. it. di F. Pistolato, Armando, Roma, 1995, pp. 108 e 115.
[4] Vernant J.-P., Mythe et pensée chez les Grecs - Études de psichologie historique, I, Paris, Maspero, 1965, pp. 125 e 128.

Aucun commentaire:

Enregistrer un commentaire