Abstract
Jean-François
Lyotard studies the form of social organizations. He identifies their focal point
in the heterogeneity that they convey within different regimes of phrases and, in
particular, between those of knowledge and freedom. Starting from this
reflection, the article examines how contemporary societies, multicultural and
globalized, need to make a choice today: either to embrace the synthesis of
heterogeneity or to respect and enforce the inevitable presence of the differend. In the first occurrence, the danger is to turn the
law into ordeal and to end up with a total war. The second instance, on the
contrary, based on the dipolar interaction, even if it cannot guarantee against
the emergence of violence, it can potentially reduce it. That is because it
transfers the survival level from exclusion of hostilities to their elusion,
from repudiating the conflict to tame it, from rejecting the muscular effort to
calibrate it.
Argomento
Le società attuali, multiculturali e globalizzate, sono
chiamate a compiere una scelta: non domani o un giorno a venire, ma oggi. Esse
devono stabilire se cercare di unificare i discorsi eterogenei che provengono
dalle differenti stratificazioni della vita sociale oppure rispettare e far
rispettare la presenza inevitabile del dissidio. Credere di poter sopprimere l’eterogeneità,
tentare cioè d’imporre un punto di vista su tutti gli altri, significa decidere
di scoperchiare il vaso di Pandora: favorire e fomentare lo scatenamento
incontrollato della violenza. Quando l’intellettuale pretende di far prevalere
le proprie idee con la coercizione, quando il magistrato piuttosto che
impegnarsi a decidere sui conflitti esige di spiegarli e pronuncia le sentenze
non in base all’ordinamento giuridico ma a un’idea astratta di giustizia,
allora le società si rinchiudono in se stesse e implodono generando come loro
correlato specifico riti sacrificali e caos. Accettare il dissidio significa,
al contrario, imbastire interazioni di tipo dipolare. Relazioni in cui la
società si autosserva a partire dai rapporti e non dai soggetti, da quello che
si fa e non da quello che si è: dallo schema di distribuzione delle diverse posizioni
e non da un giudizio precedentemente stabilito sul benessere-malessere individuale
di chi ne occupa una o un’altra. Benessere e malessere la cui definizione e
valutazione riguardano solo parzialmente la sfera pubblica dei valori collettivamente
condivisi in quanto sono riservati ai singoli individui implicati e alla loro
specifica volontà di rivendicarne il controllo. Un’ottica dipolare nei rapporti
giuridici accelera la depersonalizzazione e la disantropomorfizzazione del
diritto: comporta che l’azione del giudicare non miri a comprendere gli attori
e le cause latenti del conflitto, ma a esprimersi esclusivamente a proposito del
litigio immediato. Contempla che i magistrati si impegnino a decidere sulle controversie
e non a cercare di spiegarle. Per chiarire in che modo una società dipolare
sostituisca l’opposizione esclusiva per contraddittorietà con quella inclusiva
per contrarietà si fa ricorso alle figure del κοινός κόσμος [koinos kosmos], dell’ίδιος κόσμος
[idios kosmos] e del μικρός διάκοσμος
[mikros diakosmos]: traducendo in altro linguaggio la correlazione
elaborata da Lyotard tra giudizio (punto di vista collettivo, sguardo che
dona), intrattabilità (punto di vista individuale, sguardo che prende) e
dissidio (linea di dispersione e d’interferenza tra le due prospettive
precedenti). Si fa poi riferimento agli studi linguistici di Emile Benveniste e
a quelli di antropologia giuridica di François Ost. Creando una griglia che
articola l’ascissa io-tu
con l’ordinata io-tu-egli, i lavori di questi due autori permettono di ampliare il
tenore teoretico relativo al carattere dipolare del rapporto tra singolarità e
gruppi, coscienza di sé e coscienza morale, arbitrio individuale e liberta
attraverso la legge.
1. Pagus, mikros
diakosmos, diakosmetike techne
Jean-François Lyotard (1979: 78, 80, 85, 90-91) distingue
tre forme paradigmatiche di organizzazione sociale. (i) La prima, ancorata
all’ideale dell’autarchia, «che caratterizza il pensiero occidentale e che
ritroviamo continuamente a livello politico», richiede una «stretta
correlazione tra l’autonomia e l’autodeterminazione ». All’interno di questo
sistema «ognuno si dona da sé le sue proprie leggi» generalizzando le sue
prerogative locali senza fare ricorso ad alcun’altra cauzione. (ii) La seconda
fa perno sull’obbligazione, «valorizza il polo del destinatario del messaggio»
e propone un quadro nel quale «nessun enunciatore è mai autonomo» giacché ogni
«enunciatore è sempre al contrario qualcuno che è innanzitutto un destinatario
e un destinato. Cioè qualcuno che, prima di essere l’enunciatore, di una
prescrizione, è stato lui stesso ricettore di una prescrizione, di cui
costituisce semplicemente il relais, e in tal modo è stato l’oggetto di una prescrizione».
L’obbligazione prevede «tutto il contrario dell’autonomia, l’eteronomia».
Quando, infatti, si ascolta un racconto, si è tenuti «a ri-raccontarlo, perché
rifiutarsi di ri-raccontarlo vorrebbe dire che non lo si vuole condividere». In
altri termini, quando «qualcuno mi parla, al contempo mi obbliga». Mi obbliga a
cosa? «Mi obbliga a ri-raccontare». Non a restituire il dono al narratore
stesso. «Non sono obbligato a renderglielo, non si tratta di questo, ma sono
obbligato come un relais
che non può conservare il suo
carico, che è costretto a trasmetterlo». (iii) La «terza organizzazione (il
polo del narrato)» è «popolare, propriamente pagana, “paesana” nel senso di
pagana (e non l’inverso). Le genti del pagus (che non sono le genti del villaggio) sono delle genti le
quali non raccontano che in quanto qualcosa è stato loro raccontato, e che sono
esse stesse raccontate in ciò che raccontano».
Questa prospettiva rimescola le carte e connette in modo
inedito il rapporto tra obbligazione e autonomia con quello tra apertura e
chiusura. In primo luogo, collega l’ideale di autosufficienza non con un sovrappiù
di risorse, ma con l’idios
kosmos. Con un ordine personale,
ristretto, chiuso: intimamente privato perché strettamente singolare e dunque
difficilmente condivisibile. In secondo luogo, associa il sentimento del
vincolo con il koinos
kosmos, con lo spazio aperto della πολιτεία [politeia]: li dove degli uomini, estranei e quasi sconosciuti
l’uno all’altro, si riuniscono, si riconoscono in un’azione comune, nonostante
la disuguaglianza e le differenze reciproche. E, in terzo luogo, lungi dal
distaccare, isolare o contrapporre manicheisticamente monade psichica e insieme
sociale, Eigenwelt
e Mitwelt, lascia trasparire dalla loro risonanza un momento
pagano di στάσις [stasis]: divergente accordo in correlazione con il quale idios kosmos e koinos kosmos si completano escludendosi, si avvolgono vicendevolmente
pur a prezzo di confutazione e contestazione reciproca.
Parafrasando la teoria di Lyotard, si può dire che, kosmoi irriducibili l’uno all’altro, koinos, regime collettivo
concernente la totalità ordinata, l’impersonale,
la norma, l’universale;
e idios, sistema individuale della contingenza, fluente,
instabile, disordinato, imprevedibile, si ritrovano insieme, emuli e
antagonisti, ciascuno in prima linea sul pagus come fronte di battaglia.
L’arena dell’incontro-scontro va descritta come un μικρός διάκοσμος [mikros diakosmos]: ambito intermedio (dia-kosmos), zona d’influenza che esclude ogni relazione armoniosa e
ben calibrata e mette in evidenza il loro concatenamento in termini di
modulazione dissonante e smisurata. Che allestisce il campo magnetico
dell’intervallo tra i due secondo un’espansione non circolare ma ellittica:
attribuendogli una configurazione che, invece di possedere un centro intorno al
quale gravitare, prevede due fuochi che la tengono costantemente in tensione. A
un polo l’insieme delle frasi ammesse come plausibili nel pubblico dibattito;
all’altro polo un termine d’intrattabilità, intransigenza, intransitabilità. Il
primo circoscrive e assedia il secondo da tutti i lati, persino dal suo
interno, ma è arginato dalla parzialità e dal partito preso dell’altro che
retroagisce su di lui e non gli è mai totalmente riducibile.
Istituendo un’interazione dipolare all’interno della
quale le due estremità fungono da cariche di uguale intensità ma di segno
opposto, il mikros
diakosmos designa un teatro di combattimento
che le correla in quanto rivali e in cui viene a occupare la posizione di
arbitro: uno spazio vettoriale che crea dei contorni di demarcazione instabili
legando con una leggera interferenza i due μονομάχοι [monomachoi] che sono incommensurabili perché non seguono lo stesso
movimento né appartengono al medesimo regime. Induce, infatti, una debole forza
d’inerzia che, senza alterarne il carattere di figure a se stanti, li attrae in
un mosaico di ricorsività per il quale, di volta in volta, quando l’uno diventa
rilevante come campo tematico di esperienza e spazio positivo, l’altro gioca il
ruolo di cornice, spazio negativo e orizzonte di attesa, e viceversa: tensione
di reciprocità nella quale non c’è più alcun prius o posterus.
In base alla sua etimologia, diakosmos designa l’ordine al suo stadio primario di dispersione,
dissociantesi dal cosmo e scompaginantesi al proprio interno. Il prefisso διά significa attraverso, mediante, tra,
fra, e fa riferimento al sanscrito dā e
dvi, due, tagliare, dividere, attraversare. Denota quindi un
valore separativo tra due elementi: introduce un senso di diversione,
distinzione, differenza, rivalità, stasis. In breve, come spiega Alexander Mourelatos (1970: 231),
il rimando a diakosmos
spinge a considerare «la
convocazione di tutti i contrari» in modo tale che «il significato di ordine
viene ribaltato in segregazione, divisione, scarto, conflitto. Il kosmos dei mortali è ora un campo di battaglia».
Questa regione, secondo Lyotard (1983: 213), sia «a
livello degli individui» sia «a livello degli Stati», rende kantianamente «“più
aperti alle idee” in quanto costituisce la condizione che apre al pensiero
degli incondizionati». Infatti, non avendo natura intrinseca, non essendo in grado
cioè di essere funzionale a se stessa, ma sempre eteronoma, diretta a e da
qualcos’altro, la cerniera di collisione-collusione tra idios e koinos mette in gioco una strategia strumentale, si fa διακοσμητική τέχνη [diakosmetike techne]. Convertita in macchina, possente ma disciplinata,
titanica ma sottomessa, ricusa la specularità soggettiva in favore di
permutabilità ricorsiva e duplicità combinatoria, implicanti al contempo
uguaglianza e diversità: orchestra un incontro con il non io, l’ignoto,
l’inconoscibile e manda così in frantumi l’universo logico costruito per porsi
al riparo. Consente pertanto di testare antinomie e ambiguità razionalmente
irriducibili: di averne libero accesso nell’ambito dell’esperienza. Si tratta
di una pratica o di un’occasione che infrange la simmetria dell’osservazione ed
espone al rapporto reciproco di dualità e unità tra forma dialogica e
antilogica. Con la conseguenza che, come scrive Lyotard (1983: 73, 190), ci si
trova scaraventati contro il proprio ingombro, i propri margini, il proprio minimum sensibile, le proprie frasi discendenti da facoltà eterogenee, «frasi
sottoposte a regimi o generi differenti»: contro il proprio essere disposti in
un universo di frase, la propria stessa finitudine. «Una frase, che concatena, e
che è da concatenare, rimane sempre un pagus, una zona di confini, in cui i generi di discorso entrano
in conflitto sul modo di concatenamento. Guerra e commercio. è sul pagus che si fa la pax, il patto, è ancora sul pagus che la si disfa. Il vicus, l’home, lo Heim costituiscono una zona in cui il dissidio fra generi di discorso
è sospeso. Pace “interiore”, pagata con dissidi perpetui ai bordi. (E la stessa
disposizione per l’ego,
l’autoidentíficazione)».
2. Lo statuto bicuspide del sé e il terzo istituito dello spazio
pubblico
Emile Benveniste (1958: 312. Cfr. anche Lyotard 1973:
23-24) sostiene che «la coscienza di sé è possibile solo per contrasto. Io non
uso io
se non rivolgendomi a qualcuno, che
nella mia allocuzione è un tu.
è questa condizione di dialogo che
è costitutiva della persona, poiché prevede reciprocamente che io divenga tu nell’allocuzione
di chi a sua volta si designa con io».
Tale situazione dipende da una peculiare concordanza che abbina “la coppia io-tu”: «è possibile dunque definire tu la “persona non soggettiva”, di fronte alla “persona
soggettiva” rappresentata da io;
e queste due “persone” si giustappongono insieme alla forma della “non-persona”
(egli)».
Adottando questa prospettiva si può dire che la prima e
la seconda persona del verbo compongono un idios kosmos guidato da pulsioni singolarizzanti e assimilatrici
mentre la terza abita il koinos kosmos delle intimazioni emananti dall’ambiente politico e
sociale. Le prime due, infatti, continua Benveniste (1946: 276, 277), sono
congiunte da una solidarietà del tutto esclusiva che non riguarda in alcun modo
la terza: «io-tu
possiede il demarcatore di persona, egli ne è privo». Sono vincolate da una corrispondenza reciproca
«in quanto membri di una correlazione, la correlazione di personalità», rispetto alla quale egli è del tutto avulso. In quanto estraneo alla relazione io-tu, egli si configura specificamente come privo di referente, una
“non-persona” a “referenza zero”: «la “terza persona” ha la caratteristica e
funzione di rappresentare, dal punto di vista della forma stessa, un’invariante
non personale, e nient’altro».
Si riescono così a distinguere due fuochi di riferimento
tra i quali affiora una piega, emerge un campo ellittico di curvatura. (i)
Sulla prima focale di “correlazione di personalità” si situa un processo di
commutabilità tra l’io-tu e il tu-io: condensamento di γένεσις [ghenesis] e φθορά [phthora], generazione e corruzione, crescita e ripiegamento,
fatticità dell’io e disparità del tu, unilateralità monistica e duplicità
riflessa, cosalità dell’io che diventa tu del tu. Rapporto impossibile con il
proprio doppio, i propri fantasmi: non coincidenza del sé con se stesso,
processo di sdoppiamento (Entzweiung), amplificazione e demoltiplicazione del proprio
nell’improprio. (ii) Sulla seconda focale, la serie sensus communis, spazio pubblico, riferimento comune a un’appartenenza
condivisa, legame sociale, intersoggettività istituita prevede una sorta di ἀπάθεια
[apatheia]: affrancamento dall’espansione cinesica soggettiva a
beneficio di una forza attrattiva impersonale, che avviluppa gli omnes, e di una spinta repulsiva nei confronti delle singularitates considerate come forme degradate non integralmente distinte
dall’animalità. Su questo capo, la logica della comunità, la sua vocazione al
ben ordinato e armonizzato scartano come false apparenze e rigettano come
dissennato tutto ciò che non s’integra nell’ordine compiuto di un mondo
sensato. (iii) Un piano d’inflessione dipolare, relativo alla diakosmetike techne, apre una ferita nel cuore di entrambe le focali perché,
correlando due serie eterogenee, da un lato, trattiene la prima dal trincerarsi
nella propria autosufficienza; mentre, d’altro lato, rende discernibile una
contraddittorietà non intelligibile al senso comune né al ragionamento
ordinario.
Nella Retorica Aristotele utilizza l’intersezione di idios e koinos per distinguere due aspetti del genere giudiziario:
«definisco la legge sia particolare sia comune» [1].
Riferito al νόμος [nomos], a ciò che è stabilito, alle norme giuridiche, idios riguarda la prerogativa di essere fissate «da ogni gruppo
per i propri membri» [2],
mentre koinos
rinvia al requisito per il quale «sembrano
riconosciute da tutti» [3].
In questo caso, l’interferenza della diakosmetike techne su idios e koinos, si riverbera sui modelli sociali, le forme di governo e
le norme giuridiche che da questi discendono.
Per spiegare quest’ultimo passaggio è necessario fare
ricorso al sistema di “spazio ternario del triangolo giudiziario”, elaborato
dal filosofo del diritto François Ost (2001: 132-133, 134), strutturato secondo
«le differenti tappe dell’identità solipsista, dell’alterità, della pluralità e
dell’egli
normativo».
Ost considera che soggettività e intersoggettività
costituiscano il risultato di un processo sociale complesso. Il suo schema
presuppone che, per potersi tradurre in poteri reali, «le “capacità” del
soggetto esigano la mediazione dell’alterità»: reclamino che questi incorra nel
rischio di mettere a repentaglio la propria incolumità affrontando senza timore
lo sguardo altrui. Lo stadio solipsista, soliloquio, pretesa all’identità e
all’autonomia, concresce con «il momento del tu».
Situazione per la quale, «nel corpo a corpo o nel faccia a faccia»,
l’improvvisa e imprevista presenza di un tu «s’intromette
tra il mondo e l’io» facendoli fuoriuscire dall’indifferenziazione: dandogli
consistenza e identità. A questo punto, continua, il tu abbraccia e si lascia abbracciare dall’io, rimanendovi impigliato e dando vita a un noi, cioè a «un io a
due»; oppure lo ignora, lo respinge e se ne scolla, determinando che «l’altro
come tu (alterità)» si scinda e liberi l’accesso a «l’altro come terzo (pluralità)».
Nella prima evenienza si e accolti nella coesistenza di pienezza e benessere:
nel libero fluire dell’istante presente e nella sincronia del tenersi insieme.
Nella seconda, grazie all’interposizione di un ostacolo, si entra nello spazio
dell’esperienza e ci s’iscrive nella diacronia degli stati successivi relativi
al mutamento. Rendendo effettivo il transito dall’alterità-identità alla pluralità,
una tale differenziazione tra tu che ami e tu che giudichi dona un’inedita
«profondità alla relazione duale»: apre la strada «alla terza persona, l’egli» e integra la mediazione riflessiva con «l’istanza terza
(giudizio, ragione) dell’istituzione» che funge pure da «riferimento al terzo
istituito dello spazio pubblico».
La duplice orbita della “correlazione di personalità”,
per cui l’io
diventa tu del tu,
rivela così l’interdipendenza dipolare dell’io-tu e l’irreversibilità entropica
del tu-egli. Mette quindi in evidenza che la matrice del dover essere non è avulsa
dal sé. Che, da un canto, le leggi fissate da ogni gruppo per i propri membri
non provengono dalla ragione come ambito sopraindividuale né dall’indistinzione
di un senso comune. Mentre, d’altro canto, queste stesse leggi cessano di
essere legittime ed efficaci quando non sono più riconosciute come accettabili
da una parte rilevante di chi dovrebbe osservarle. Il sé, infatti, non riguarda
solo la terza persona in quanto “invariante non personale” ma, prendendo le
fattezze del self, dell’ipse o dell’idem, si presenta anche come la forma riflessa di tutti i
pronomi i quali, stando al posto di un nome, denotano una prospezione
simultanea di genitivo soggettivo e oggettivo in quanto non reversibili né
convertibili: un’eruzione che attualizza lo stesso sé senza mai esaurirne la
dinamica. Questo sé, in altre parole, gode di uno statuto bicuspide. Insegue
senza posa un punto di regresso dove invertire bruscamente la direzione del suo
movimento in modo tale che, come spiega ancora Benveniste (1969: 255; cfr.
anche Ernout-Meillet 1932: 664), da «idiotes, essere sociale circoscritto a se stesso», può mutare in
«sodalis»: membro di un gruppo sociale. Giacché richiama «le due
forme del se
latino, divenute indipendenti: se riflesso, indicante “se stesso”, e se partitivo, sed,
“ma”, marcante distinzione e opposizione». Il sé, si può concludere con Lyotard
(1983: 91), «non è dunque attivo o passivo, è entrambe le cose, ma non è l’una e
l’altra se non nella misura in cui, preso in un regime di frasi, obietta a se
stesso una frase di un altro regime e va alla ricerca, se non della
conciliazione, almeno delle regole del conflitto, in altre parole della sua unità
sempre minacciata» e mai conchiusa. Ne consegue che per accedere allo statuto
di soggetti responsabili non è indispensabile rinunciare alla solitudine e al
capriccio solipsista dei sensi individuali: che la liberta soggettiva
indeterminata non costituisce un pericolo per il piano dell’intersoggettività
ma, piuttosto, è il sistema normativo a perdere ogni legittimità e a non essere
più in grado di farsi rispettare quando non risulta più adeguato al sentire dei
singoli individui.
3. La preuve
diviene epreuve: il giudizio (Urteil) precipita nell’ordalia (Ordâl,Ordôl)
Ci
ò a cui bisogna sopperire, protesta
Lyotard (1982: 214, 222), è «l’assenza di un tribunale universale o di un
giudizio definitivo davanti ai quali il regime della conoscenza e quello della
liberta potrebbero essere, se non riconciliati, non lo saranno mai, almeno
messi in prospettiva, ordinati, finalizzati secondo le loro differenze». Per
compensare questa mancanza, lungi dal realizzare una giurisdizione della
conoscenza credendo di poter appianare kantianamente (verglichen) il dissidio mediante la soddisfazione (Genugtuung) di tutti i contendenti, occorre sperimentare
incessantemente la mossa del cavallo: consacrare la giusta rilevanza all’abisso
beante dell’intervallo tra le serie eterogenee. E, infatti «a proposito di tale
diversità che il giudizio deve esercitarsi. è
quest’ultima che deve discernere e considerare. è il baratro esistente tra le frasi, la loro incommensurabilità,
che deve riconoscere e far rispettare».
è
necessario, insomma, prosegue Lyotard (1982: 230; 1979: 83), operare una drastica
«rottura con la filosofia hegeliana del diritto e, indirettamente, anche con un
pensiero della mediazione che riconcilia, con l’idea kantiana della Zusammenstimmung». Non è infatti possibile né auspicabile mettere fine ai
dissidi: «l’ideale della riflessione non è solo, come pensava Kant (in parte
contro se stesso), trasformare i dissidi in litigi, sostituendo il pretorio al
“campo di battaglia” e l’argomentazione agli idiomi». Oggi, nelle società
attuali, multiculturali e globalizzate, «la responsabilità riflessiva deve
anche discernere, rispettare e far rispettare i dissidi, stabilire
l’incommensurabilità delle esigenze trascendentali proprie alle famiglie delle
frasi eterogenee, e trovare infine altri linguaggi per ciò che non può
esprimersi nei linguaggi esistenti».
La questione che si pone è dunque quella del rapporto tra
il regime della conoscenza e quello della liberta.
Nel trattato Vita activa Hannah Arendt (1958: 86) scrive che «la realtà della sfera
pubblica si fonda nella presenza simultanea di innumerevoli prospettive e
aspetti in cui il mondo comune si offre, e per cui non può essere trovata né una
misura comune né un comun denominatore. Infatti, sebbene il mondo comune sia il
comune terreno d’incontro, quelli che vi sono presenti hanno in esso diverse
posizioni, e la posizione di uno non può coincidere con quella di un altro, più
di quanto lo possa la posizione di due oggetti. L’essere visto e l’essere udito
dagli altri derivano la loro importanza dal fatto che ciascuno vede e ode da
una diversa posizione. Questo è il significato della vita pubblica». Tra gli
uomini, in altre parole, esiste un dissidio permanente. Essi osservano le cose da
un punto di vista diverso, ognuno con la sua testa e il suo cuore, e cercare di
metterli d’accordo è un’impresa disperata. Saranno d’accordo se e quando lo
saranno.
Altrimenti: ognuno per la
sua strada.
Ma cosa accade quando le strade dei
dissidenti s’incrociano?
Il dissidio, che comporta odio e ostilità reciproci, li
porterà a combattersi. Tuttavia, per potersi affrontare, non basta che si
ripetano di pensarla in modo diverso; devono anche arrivare a identificare un
oggetto a cui ancorare il conflitto. E, una volta accesa, la disputa potrebbe
estendersi fino alla distruzione e dissoluzione dell’organizzazione sociale
stessa. A ciò si oppone la legge, il cui compito è di limitare la violenza
diffusa e garantire in tal modo il perdurare della società. Ma, per fare ciò,
il diritto non deve assolutamente cercare d’impedire il dissidio perché più
cerca di neutralizzarlo più lo fomenta. Quello che deve fare è semplicemente
occuparsi della lite. Quando il tribunale regola una disputa, indebolisce le
ragioni della contesa e consente di stemperarne l’inconciliabilità. Non
interviene sull’antinomia recondita, ma solo sul contrasto esplicito: lascia la
prima allo stato latente e fa in modo così che essa resti potenzialmente
congelata. Poiché opera in ambiti parziali e a partire da una sfera parziale,
infatti, il compito del giudice non è di tipo gnoseologico ma criteriologico e
prasseologico: non consiste affatto nel comprendere le parti, ma nel dirimere
praticamente le controversie trovando, all’interno del dettato della legge, la
soluzione più efficace e meno sacrificale possibile.
L’aspetto principale dell’azione del giudicare non
riguarda pertanto l’ottenere una conoscenza minuziosa degli attori o delle
cause latenti del conflitto, ma la possibilità di liberare la strada, di
sciogliere le fissazioni e rendere possibile l’andare avanti: di disincagliare ciò
che ostruisce la circolazione, occlude gli accessi, rallenta i flussi. Per
questo motivo il giudizio deve esprimersi esclusivamente a proposito del
litigio immediato è mai in rapporto alla molteplicità irretita in sé stessa dei
suoi oscuri recessi che non sono mai pensabili al singolare e rispetto ai quali
quindi non può apporre altro che un silenzio eloquente.
Quella che presiede al ius dicere è dunque la ragione nel suo uso pratico, che non
s’interessa ai contenuti ma alle procedure. è
solo in quanto tale che può obbligare a rispettare la legge: il suo carattere
prescrittivo si rivolge non a un soggetto particolare, ma alla prescrizione
stessa. Ciò che rende sopportabile il vincolo all’osservanza delle leggi non è una
promessa di giustizia, sempre vana, ma la correttezza formale dell’iter seguito
dalla proposizione alla promulgazione che qualifica le norme e ne rende
effettiva l’entrata in vigore. Al contrario, il pensiero nel suo uso
speculativo, che procede per denotazioni, non può né deve obbligare, ma solo
convincere, persuadere.
Il dissidio fra speculazione e prescrizione riguarda il
fossato incolmabile che unisce e separa principi etici, frasi teoretiche, leggi
matematiche e fisiche, regole amministrative e norme giuridiche. Finché
l’orbita in cui è iscritta la ragione speculativa investe la conoscenza e
quella a cui è ancorata la pratica orienta l’azione, finché nella prima si
adoperano unicamente le armi della persuasione e nella seconda solo quelle
dell’obbligazione, le organizzazioni sociali conservano il loro carattere
dipolare, si consolidano e perdurano nel tempo perché le linee di forza
generate non interrompono il campo magnetico di polivalenza. Quando invece le
due regioni si confondono, l’intellettuale vuole imporre il proprio punto di
vista con la coercizione, il magistrato piuttosto che impegnarsi a decidere sui
conflitti pretende di spiegarli e pronuncia le sentenze non in base
all’ordinamento giuridico ma ad un’idea astratta di giustizia, allora le società
si rinchiudono su se stesse e implodono: generando come loro correlato
specifico riti sacrificali e terrorismo. Quando, infatti, i dissidi non possono
dispiegarsi liberamente, una conflagrazione generalizzata erompe senza più
remissione possibile.
Nella terza sezione del Canone della ragion pura (1781: 1152-1153, 1155-1157), secondo capitolo della Dottrina
trascendentale del metodo,
intitolata Von
Meinen, Wissen und Glauben,
Kant distingue tra opinare, sapere e credere. Sia l’opinione che il sapere e la
fede riguardano un «ritenere vero» (Furwahrhalten). Tuttavia, a differenza della prima, che è «insufficiente
tanto soggettivamente quanto oggettivamente», e del secondo, che è «sufficiente
tanto soggettivamente quanto oggettivamente», la fede è descritta come
«sufficiente solo soggettivamente» ma non oggettivamente. Si ritorna sul
rapporto tra Meinen,
Wissen und Glauben, nel capitolo nono dell’Introduzione alla Logica (1800b: 135, 130, 143) secondo il quale, fondata su delle
ragioni unicamente soggettive, «questa convinzione pratica o questa fede morale
razionale e spesso più solida di tutti gli altri saperi» [4].
Das
Glauben, infatti, esercita un’influenza
risolutiva sulla capacità di decidere e agire in quanto mette in moto una
«propensione all’uso passivo della ragione» [5]
che conduce a un eccesso di autoreferenzialità: a un monologo con se stessi
che, non prendendo in considerazione riflessivamente il punto di vista altrui,
elide ogni intermediario e procede senza incontrare ostacoli all’esecuzione di
qualunque proposito.
Opinare, sapere e credere prevedono frasi a regime
eterogeneo: il criterio che ne determina efficacia, estensione, sfera d’azione
e perimetro di pertinenza, varia secondo la natura della legittimazione
iscritta nel singolo ambito di competenza. Sono, cioè, frasi strutturate
secondo un processo che si potrebbe definire adiabatico: un movimento di
fluttuazione che lascia nessuno o pochi residui e in base al quale non è loro
consentito contraddirsi reciprocamente perché non sono soggette a collisione
possibile. Possono essere tutte vere allo stesso tempo: «possono persino –
scrive Lyotard (1982: 234) – non avere per niente il vero come posta in gioco,
e la loro sintesi, il risultato, può non essere oggetto di un concetto». L’idea
stessa della loro commensurabilità appare totalmente inconcludente: quando pero
colui che opera «la sintesi pretende di amministrarne le prove, l’assurdità
prepara il terrore».
Questo il punto delicato: il giudizio che vuole
ricomporre il dissidio risponde non all’appello della legge ma a quello del
vitello d’oro.
Coloro che mirano a unificare generi eterogenei sotto un
unico regime si proiettano dunque in un monologo come quello della fede o
dell’ideologia. Testimoniano, cioè, secondo le parole di Marcel Jouhandeau
(1935: 108), «il gioco della vita, della loro attività vana, delle complessità
successive dei loro stati d’animo, a me interdetti, che permettono loro di
accostarsi all’assoluto, di giocare come assolutamente, di prendere quasi senza
sosta, senza malessere e senza rimorsi, la vanità per la verità, il relativo
per l’assoluto, il loro proprio assoluto». Entrano così in dissidio con tutti
quelli che fanno lo stesso ma da una prospettiva diversa. In questo movimento
qualcosa grida a proposito di un nome, una credenza, un’interpretazione che sa
di essere di parte, e vuole scientemente esserlo; domanda di essere messa in
frasi, richiede di essere comunicabile, riconoscibile dalle altre ideologie, e
soffre del torto di non poterlo essere.
Chi accetta la presenza inevitabile del dissidio sottoscrive,
invece, l’assunto di Hannah Arendt (1961: 283) secondo la quale «il giudizio,
dice Kant (1790: 938), è “valido per ogni singola persona” – für jedermann zu
gelten – che giudica: non è valido per
coloro che non giudicano, né per quelli che non sono implicati nello stesso
spazio pubblico in cui gli oggetti del giudizio appaiono». E considera pertanto
che, a differenza dell’autoreferenzialità implicita nelle fedi pratica o
dottrinale, la facoltà del giudicare preveda la necessità di tenere conto dei
punti di vista diversi di tutti coloro che direttamente o indirettamente sono coinvolti
nella controversia.
Certo, tutte le frasi, senza esclusione alcuna, comprese
quindi anche quelle relative al giudicare, comportano, come sostiene Arendt,
uno spazio pubblico locale: un piano di osservazione che prende in
considerazione soltanto chi partecipa del loro determinato regime
epistemologico. è possibile,
tuttavia, limitarsi a procedere lungo l’unità-pluralità della propria coerenza
particolare o cercare d’imporre i risultati ottenuti a sfere diverse ed
eterogenee. Ciascuna delle opzioni è ipotizzabile. Solo che, avverte Lyotard
(1983: 143, 148; cfr. anche Öffenberger 1990: 117-141; von Wright 1951a: 1-15.
1951b: 1-41), quando si rinuncia alla logica dell’alternatività, governata dal
principio di non contraddizione, si abbandona parallelamente anche l’ideale
della bivalenza, cioè il postulato per cui ogni proposizione o è vera o è falsa,
per sostituirlo con il modello della contrarietà, i cui termini non sono
mutuamente esclusivi. Si mira, in breve, all’arco di parabola di maggiore
convergenza possibile tra ambiti che si confrontano senza volersi prevaricare
reciprocamente. Mentre, al contrario, perseguire a tutti i costi la volontà di
sintesi tra insiemi eterogenei significa ridurre al mutismo la pluralità dei
regimi di frasi e, in fin dei conti, sopprimerla. Presume l’assunzione di un regimen per
partem implicante un «accecamento» che
«consiste nel mettersi al posto dell’altro, nel dire io al suo posto»: mobilità,
così, «il ritorno del sacro con la sua Aufhebung sacrificale».
Si tratta, dunque, di capire come nell’analisi delle
forme sociali si debbano distinguere i rapporti di forza emergenti dalle
strutturazioni in cui s’iscrivono. In modo tale da poter accordare la dovuta
rilevanza sia al conflitto regolabile, dove le frasi sono traducibili, sia al
dissidio insanabile, con i suoi eserghi inderivabili e non desumibili: sia al
gioco degli interessi in lotta, sempre negoziabili, sia all’incompatibilità
drastica dei codici simbolici, delle costellazioni semantiche e delle province
di significato in dissonanza cognitiva non riconciliabile.
Esistono, infatti, modi diversi di riflettere sulle cose
e di ritenerle vere. Alcuni sono ubicabili sull’orbitale dell’idios kosmos, altri maggiormente su quello del koinos kosmos. Nello spazio-tempo dell’eterogeneità non esiste una
gerarchia assoluta che discrimina tra i differenti criteri. Sono tutti
legittimi e ammissibili finché ognuno si attiene alla propria grammatica. Fino
a quando, cioè, coloro i quali scelgono un parametro oppure un altro sono
disposti a farsi carico delle frasi enunciate, sostenendo che le proprie
concezioni sono più affidabili delle altre, ma senza esigere che l’angolo di
visuale prescelto coincida con la natura intrinseca delle cose. Non reclamando,
cioè, alcuna dispensa particolare che metta le proprie formulazioni al riparo
da ogni critica e non pretendendo d’imporle a chi non le consideri valide o
utili per il proprio modo di vedere.
Fintantoché la coerenza di una frase segue il suo
percorso, può presentare una maggiore o minore precipuità, ma rimane comunque
valida e plausibile.
Quando, al contrario, vuole farsi metanarrazione, quando
vuole invadere lo spazio delle altre frasi e statuire su di loro, al posto
loro, allora «prepara il terrore». Pretendere di sopprimere il dissidio, lungi
dal frenarlo, lo inasprisce: «è proprio sperando di mettervi un termine,
trasformando la guerra in processo e pronunciando un verdetto destinato a
regolare il litigio, che un dissidio può essere dichiarato». Persino «riparare
il danno può risvegliare il torto che si considera irreparabile. Il fine si
elude così da solo, la pace permane uno stato armato» (Lyotard 1982: 230, 234).
Quando, infatti, impugnato il criterio su cui una frase è
incardinata, si tenta di applicarlo con la forza ad altre serie di frasi, e
persino se lo si fa con la ragionevolezza, ricompare la barbarie, tornano
strazi e supplizi: la preuve
diviene épreuve, il giudizio (Urteil) precipita nell’ordalia (Ordâl, Ordôl), il riscontro si fa redde rationem, resa dei conti, Jüngste Gericht, giudizio universale. Al dominio della legge, si
sostituisce la gelosia. «La vendetta rode attorno ai nomi. Non precede i
processi, li segue. Non può invocare un diritto, che è sempre quello di un
tribunale, unico e che vuole delle prove, dei nomi, delle misure. Ciò che grida
vendetta, sono delle frasi che non possono dichiararsi, che hanno subito un
torto perché non possono fare appello che a dei sentimenti»: a idiosincrasie, a
«ragioni soggettive», a motivi partigiani, a interpretazioni non
generalizzabili, a significati non condivisibili. Quando «l’autorità
dell’idioma nel quale i casi sono stabiliti e regolati viene contestata»,
quando «vengono pretesi un altro idioma e un altro tribunale, che la parte
avversa contesta e ricusa», allora «e la guerra civile del linguaggio con se
stesso» (Lyotard 1982: 235-236): allora riappaiono i sacrifici.
4. Società
dipolari e schematismo pragmatico
Le verità parziali, che in altri frangenti appaiono in grado
di esigere dei tributi, nelle società qui definite dipolari non riescono a far
valere le loro pretese come diritti: non sono capaci di ottenere una credibilità
così generalizzata da fungere da archimedische Punkt per tutte le diverse forme della vita sociale. Queste organizzazioni,
infatti, non contemplano niente a cui si possa tenere in modo risolutivo, nulla
a cui basterebbe attenersi. Prevedono rapporti sociali basati sulla molteplicità
dei giochi linguistici i quali, a loro volta, logorano e depotenziano le tesi
che ambiscono a legittimare estrinsecamente la validità dei saperi, in quanto mostrano
l’inadeguatezza di tali tesi a garantire pluralità e porosità.
Ma quando l’autorità non è più prerogativa di un soggetto
che impone la sua forza dall’esterno, cos’e che certifica l’attendibilità della
conoscenza? cosa ne avvalora il senso e ne indica la direzione? chi ne dirige
la barra e governa il timone?
Per rispondere bisogna ritornare alla discriminazione
kantiana tra denotativo e prescrittivo, tra ontologia ed etica, tra fatto o
significato e principio regolativo. Giacché è in base a tale ripartizione che
si può indicare come tratto distintivo delle società a carattere dipolare «il
principio per cui l’eterogeneità deve esser rispettata positivamente» (Lyotard
1986: 35) malgrado ciò irriti le differenti facoltà e ne precluda l’esercizio
armonioso.
Un sistema dipolare e, in effetti, un’organizzazione
sociale che si autodescrive come un campo magnetico: un parallelogramma le cui
intensità costituiscono linee di flusso in cui origine e termine si susseguono
indefinitamente e, pertanto, conservano sempre una certa distanza che rende
loro impossibile disgiungersi o unificarsi completamente. Quando, cioè, un
magnete viene spezzato, se ne formano due nuovi con entrambi i poli magnetici:
in natura non è stato mai trovato un polo magnetico isolato, un monopolo
magnetico. In un sistema di tale costituzione, parti e controparti sono
contrarie, ma non contraddittorie. Sono correlate non da una linea pomeriale,
ma dal processo di un campo di forze: da una punteggiatura che di volta in
volta ne fissa il perimetro di estensione e ne delimita l’arco cronologico di
espansione. Sono «i passaggi che circoscrivono i domini di legittimità e non i
domini che preesistono ai passaggi e li tollerano. Cos’altro facciamo, qui, se
non navigare fra le isole per poter dichiarare paradossalmente che i loro
regimi o i loro generi sono incommensurabili?» (Lyotard 1983: 172).
Una società dipolare presuppone dunque che, in primo
luogo, non si possa far ricorso ad alcuna sintesi in grado di mediare tra norma
e descrizione: alcun pontaggio tra discorso e fatti, tra significato delle
parole e cose allo stato libero e selvaggio. E che, in secondo luogo, non
sovrastato da un’istanza che si pretende conciliatrice, l’intervallo tra gli
uni e gli altri si costituisca come semplice relazione di forze. Per questo
tipo di società non c’è ordinamento gerarchico tra play e game. Il gioco stesso vale come caso particolare. Dadi e
regole sono gettati con un unico lancio. Sintesi e rivendicazioni di oggettività
sono accettate solo tenendo conto dei loro limiti e delle loro ambivalenze.
In un sistema dipolare la frattura tra generale e
particolare si presenta tanto profonda da rivelarsi inutilizzabile per chi
volesse installarvisi per imporsi sui contendenti. L’ambivalenza tra loro
giunge tuttavia ad essere governata nel caso in cui, al posto di una filiazione
genealogica, sia introdotto un altro tipo di giunzione imperniato
sull’alleanza, in modo tale che il loro raccordo si manifesti sotto forma di un
sodalizio federativo liberamente scelto. Liberta che riguarda sia la non
subordinazione a una matrice originaria sia l’essere svincolati rispetto alle proprie
parti. A questo punto, non più dipendenti da uno sfondo contestuale né da
componenti derivate, gruppo e unità paiono guidati da una determinazione esattamente
opposta: dalla propensione a produrre nuove relazioni e nuovi processi, a
modellizzare e riorientare il complesso della loro affiliazione. In breve, dalla
capacità di essere, non indici dell’insieme, ma fattori delle connessioni a esso
relative: artefici di nuove inedite relazioni nelle serie in cui compaiono e in
quelle a cui danno avvio. In questi termini, la presa in conto della dipolarità
sostituisce lo schematismo trascendentale delle condizioni di possibilità con
lo schematismo pragmatico dei processi di attualizzazione e delle linee di
attualità per i quali l‘attualizzazione non può in alcun modo esaurire tutte le
potenzialità ed è – casualmente, occasionalmente, ma incessantemente –
trasmodata dalle linee di attualità e dalle invenzioni continue da esse
realizzate. L’unità multipla, πλήθος είναι [plethos einai], della dipolarità consente, infatti, di rinunciare alla
necessità di una priorità trascendentale dello spazio e del tempo rispetto alla
densità, alla corposità delle serie io-tu e io-tu-egli incarnanti esse stesse
la spazio-temporalità del concreto-di-pensiero e dell’essere-movimento.
Si tratta di un collegamento tra parti nel quale può
fungere da intermediario solo qualcosa che non coincide con esse e a esse non
appartiene in alcun modo. Prodotta dal loro incontro e dalla loro separazione, questa
componente ulteriore ha valore di sistema. In grado di agire con ampia
autonomia, fa si, cioè, che sia gli insiemi e le loro parti sia le parti tra di
loro facciano sistema: in modo tale che non sia possibile concepire gli uni che
servendosi delle altre. Ciò che è aggiunto al processo di correlazione degli
insiemi tra di loro e con il mosaico delle forze che li compongono è una
soglia. Elementi comuni, posti es meson, riguardanti tutti e nessuno, che, come scrive Maurice
Merleau-Ponty (1956-1957: 166), consentono di distinguere un corpo dagli altri,
e in tal modo di elaborarne il carattere di singolarità, non grazie a una
perimetrazione esterna, ma a un bordo interno, «non per ciò che specificamente
esclude, ma per quanto eminentemente include».
Dar forma a dei limiti significa iscriverli su di un
sostrato, configurarli come segni riconoscibili. Ma vuol dire anche
attribuirgli un senso e un valore i quali, spesso, innescano un processo di
alienazione in un tempo inteso come grandezza indipendente dalle condizioni
date e in uno spazio che funge da conferitore d’identità. Processo che, in
prima istanza, gode della propensione a conservare l’individuo solo a
condizione di reprimerne l’individualità. E, in seconda istanza, tende a
trasformare i confini in una bandiera: a mutarli nel bastione di una fortezza
da espugnare a tutti i costi o dalla quale gettare olio bollente sugli altri,
sui nemici. Nel caso in cui, dunque, i tracciati di demarcazione vengano incorporati
in significati, investiti in simboli semanticamente attivi, incarnati in una
forma materiale identificabile dagli attori sociali, si apre allora un varco dal
quale inevitabilmente s’introduce lo scatenamento smisurato della violenza.
E dalla presa in conto di ciò che sorge la teoria
sociale, incardinata sulle nozioni di dipolarità, dissidio e stasis, per la quale una punteggiatura elementare subentra alla
mediazione e un campo di forze dipolare alla sintesi dialettica (cfr. Whitehead
1927-28: 43-46, 239-240, 344-345; Abragam 1961: 170-215; Brush 1967: 883-893;
Melandri 1968: 366-370; Deleuze 1968: 53-117; Loreaux 1997: 347-369).
Costruire una puntuazione significa osservare la rete
delle interazioni sociali nei termini di un campo magnetico le cui linee
vettoriali, intervallate da una distanza data, non possono mai alienarsi l’una
all’altra, divenire una, né emanciparsi l’una dall’altra, farsi completamente
autonome. Come scrive Maurice Blanchot (1973: 57), «se è vero che c’è nella
lingua cinese un carattere di scrittura indicante insieme “uomo” e “due”, e
facile riconoscere nell’uomo colui che è sempre sé e l’altro»: la dipolarità
della concordia discorde e della comunicazione-interruzione, mai aurorali, mai
definitive. «Ma è meno facile, più importante forse, pensare “uomo”, cioè anche
“due”, come lo scarto al quale manca l’unità, il salto dallo zero alla dualità,
l’uno dandosi allora come l’interdetto, lo stato intermediario».
è
questo scarto che sugella dipolarmente l’alleanza Hermes-Hestia: «Hermes, l’esterno,
l’apertura, la mobilità, il contatto con l’altro da sé»; «Hestia, l’interno, il
chiuso, il fisso, il ripiegamento del gruppo umano su se stesso» (Vernant 1963:
152). Esso fa si che il soggetto, invece di annichilirsi nella simbiosi o nel conflitto
estremo con la sua replica speculare, entri in una relazione in grado di mutare
la lotta in gioco e l’antagonismo irriducibile in disputa amichevole.
Le organizzazioni sociali di tipo dipolare invocano
dunque il lucreziano (De
rerum natura, V, 849-850: 315, 347) multa rebus concurrere
in modo tale da istituirsi al
contempo come congiunzioni e come congiunture: come concatenazione tensoriale
dei singoli operatori e come aggregazione contingente di forze concorrenti in
un parallelogramma costituito da più vettori. Prediligono la policronia
all’armonia: non dialogo, ma incontro, τύχη [tyche]. Si presentano come associazioni la cui durata è relativa
al gradiente d’interdipendenza dei componenti, che risultano responsabili non
solo ognuno di sé stesso e della propria collocazione, ma anche tutti insieme
del tutto, senza istanze superiori, senza oneri sottostanti, liberi. Come
denuncia Kant (1793b: 271; 1793a: 229) contro coloro che sostengono che «un
certo popolo non è maturo per la liberta» (ein gewisses Volk ist zur Freiheit
nicht reif). Se fosse così – continua – «la
liberta non arriverà mai (die Freiheit nie eintreten) perché non si può diventare maturi per la liberta se
prima non si è stati posti in essa» (denn man kann zu dieser nicht reifen,
wenn man nicht zuvor in Freiheit gesetzt worden ist). Per concludere: «bisogna essere liberi per potersi
servire convenientemente delle proprie forze nella libertà» (man muß frei sein, um sich seiner Kräfte in der Freiheit
zweckmäßig bedienen zu können).
In tale diversa condizione, insieme e parti non
equivalgono a generatore e generato, naturans e naturatus. Nessuno dei due funge da potenza iniziale che prefigura
e anticipa l’altro, lasciandolo divenire ciò che è già previsto essere, né gli
fornisce un orizzonte che, sottraendosi man mano che si avanza verso di lui,
risucchia e inghiotte nel proprio gorgo di finalità costituente. è il rapporto stesso tra loro che ne
definisce campo d’intersezione e linea d’universo fisici, origine e orizzonte
sociali, ἀρχή [arché] e τέλος [telos] etico-politici. L’interdipendenza dipolare, infatti,
(i) non prevede la reintegrazione di un ordine originario; (ii) considera che
la linea dell’orizzonte non est puncti evolutio; (iii) scorge in corpi e artefatti un’interazione e non un’identità;
(iv) contempla pertanto che anche il dissidio costituisce una forma di
correlazione rispettabile.
Tuttavia, che i dipoli non risultino imprigionati nei
processi di proiezione-introiezione o di razionalizzazione-regressione non vuol
dire che il mondo fenomenico venga esautorato. Come scrive Georges Bataille
(1930: 102-103): «a ciò che si può ben chiamare la materia, poiché esiste al di
fuori di me e dell’idea, mi sottometto interamente e, in questo senso, non
ammetto che la mia ragione diventi il limite di quello che ho detto perché, se
procedessi così, la materia limitata della mia ragione prenderebbe subito il
valore di un principio superiore (che questa ragione servile sarebbe incantata
di stabilire al di sopra di lei, per poterne parlare come funzionario
autorizzato)». In tali termini, tra realtà e pensiero, ontologia e noologia, πόρος [poros] e ἀπορία [aporia], cose del mondo e modo umano di selezionarne aspetti
pertinenti alla sua forma di vita, la mente non funge da limite. Sono piuttosto
il limite e la finitudine a torcersi, propagarsi, disperdersi: punteggiatura,
spostamento-mutamento, interruzione, sospensiva e catalettica, chiamati
processo body-mind. Sistema che, ostruito dalle stesse parti che lo
compongono, le comprime ed e investito dal loro feedback provocando in tal modo una reazione a catena: un lavoro
di produzione, riorientamento e modellizzazione di se stesso e delle sue
componenti che da vita a corpi, mondi, conformazioni inedite.
Malgrado, dunque, non possa garantire contro lo
scatenarsi smisurato della violenza, l’opzione dipolare riesce comunque a
prospettare una salvaguardia. Descrivendo la relazione al contempo come arco e
come freccia, come albero e come frutto, curvatura spazio-temporale che si
piega in direzione d’irreversibilità, entropia, rischio, e apertura ad altre
interdipendenze, indica che proprio il tentativo di proscrizione del circolo
virtuoso-vizioso configura il piège che scatena la guerra di tutti contro tutti. Prova così a
ingannare l’impulso alla rivalità mimetica: trasformando l’irriducibilità
assoluta in reciproco riconoscimento in grado di ricomporre la mutua alternatività
in competizione agonistica, in disputa amichevole. Trasmutando la lotta in
gioco, l’urto violento in negoziazione pacifica: spostando la misura della
propria sopravvivenza dall’esclusione delle ostilità alla loro elusione,
dall’evitare il conflitto all’addomesticarlo, dal rinunciare allo sforzo
muscolare al calibrarlo.
5. Arte della
parola come scienza civile e linea d’intrattabilità
Le società dipolari comportano relazioni sociali in cui,
come suggerisce Lyotard (1980: 8-9; 1979: 78, 81), viene amplificata «la nostra
sensibilità verso le differenze». A tali rapporti fanno riferimento i due
versanti del “paganesimo”: i dipoli della referenza e della destinazione.
Rispetto al profilo del soggetto artefice incontrastato di se stesso, nel campo
di sperimentazione sociale e politica chiamato «paganesimo, c’è l’intuizione,
l’idea opposta. Cioè l’idea che nessun enunciatore è mai autonomo» perché non può
sottrarsi ai dipoli del referente e del ricevente in quanto il locutore è «qualcuno
che è stato “parlato”», che «riceve un racconto nel quale è soggetto del
racconto», e al contempo «colui al quale si è parlato».
Si può dunque dire che, all’interno della civitas popularis, entro la società nella quale la fonte di tutti i poteri
risiede nel popolo [6], la
liberta degli individui è by the law e non from the law: non consiste affatto nel potere di fare il proprio comodo,
ma nel diritto di muoversi senza impedimenti nello spazio delimitato dalle
leggi. La subordinazione alla forza della legge e non a quella degli uomini indica,
infatti, che il popolo costituisce l’unico soggetto idoneo a designare l’assemblea
legislativa e a investirla di un mandato. è
la sovranità popolare che legittima i governi e, quindi, la distinzione fra
legislativo ed esecutivo implica la supremazia del primo sul secondo. Come
insegna Cicerone (De
re publica, I, XXV, 39: 199): «lo Stato (res publica) è la cosa del popolo (res populi, bene comune del popolo) e il popolo non è un
qualsivoglia agglomerato di uomini riunito in un modo qualunque, ma una
moltitudine associata in base all’accordo di osservare la giustizia e alla
comunanza d’interessi (coetus multitudinis iuris consensu et
utilitatis communione sociatus)»
[7].
E, come espone limpidamente anche la Rhetorica ad Herennium (II, XIII, 19: 309), «lege ius est id, quod populi iussu sanctum
est». Ius,
in altre parole, non indica una legge qualsiasi, ma unicamente le norme sancite
iussu
populi, secondo il volere del popolo.
La traccia di questo volere non costituisce pero l’identità
del popolo come una volontà di dominio: non costituisce il popolo stesso nella
padronanza certa di un’identità determinata.
Generato dal movimento incessante del raccontare e del
ri-raccontare, dalla voce che lo reitera interminabilmente in parole sempre
uguali, sempre diverse, e dall’ascolto che lo prolunga indefinitamente senza
poterlo mai realmente identificare, riprodurre o riconoscere, il nome del
popolo vive in tutti coloro che osservano il ius come un debito irremissibile che dissolve ogni
rappresentazione perché non può essere ricomposto e unificato in una sintesi.
Nel moto di andata e ritorno tra gli albori primordiali, anonimi e impersonali,
a cui la presenza di tale popolo rinvia, e l’attualità decisa in comune in cui
esso si prospetta al presente, il raccontare quello che esso è stato al suo
avvenire che si profila rivela così che una parte di se stesso scaturisce
dall’obbligazione medesima. Procede dal suo essere iscritto ancestralmente
nella legge e da essa letteralmente marchiato in quanto superfetazione tra
volontà particolaristica della consapevolezza e voce interiore della coscienza
morale: tra presenza chiara di sé a se stesso, scintilla conscientiae, e con-scientia, sapere condiviso, tribunale
della coscienza (syneidotos
dikasterion, syneidotos nomos). Risonanza magnetica tra la memoria del subjectum proprium
e la riflessione che ne favorisce
l’incontro con il subjectum
commune: dipolarità tra limitatezza
intellettiva dell’idiotes
e limiti collettivi e condivisi del koinon (cfr. Ojakangas 2013: 40-55).
Il populus e nessun altro che tutto il populus, cioè l’universitas civium che costituisce il vero dominus superiorem non recognoscens in quanto detiene una sovranità esclusiva e non derivata,
incarna la fonte ultima dell’autorità legale per il semplice fatto che quod omnes
tangit, ab omnibus approbari debet:
quello che tocca tutti, da tutti deve essere approvato. Ritroviamo così la
definizione Ciceroniana di stato di diritto come sistema che garantisce i
cittadini con l’uso di norme che si definiscono giuridiche perché precise nella
loro descrizione e decise in comune. Quando nel De re publica (I, 32, 49: 208-209; VI, 13, 13: 392-393) ci si pone la
domanda «quid
est enim civitas nisi iuris societàs?»,
che cosa è infatti una società se non la partecipazione a un diritto comune? La
risposta data nel Somnium
Scipionis è «concilia coetusque hominum iure
sociati, quae civitates appellantur»:
si chiamano società (civitates, politeia) le unioni e aggregazioni associate sulla base del
diritto.
Scoprendo la propria liberta come correlata con la legge
e attraverso di essa con le norme sancite iussu populi, ognuno è posto al cospetto di altri come ponte/porta,
come propria soglia: e votato alla dipolarità dei kosmoi idios e koinos. Risulta quindi libero solo in quanto iscritto
dipolarmente nella presenza degli altri: unicamente in virtù del fatto di porsi
consapevolmente delle limitazioni e scegliere liberamente di non oltrepassarle.
è in questo senso che si può dire
con Lyotard (1979: 85-86, 98-99) che «la volontà non è mai libera e la liberta non
è mai la prima. Che successivamente si possano dire altre cose, d’accordo, che
successivamente ci sia volontà, d’accordo; ma questa volontà non si prende che sullo
sfondo di un’obbligazione che è iniziale e che è molto più antica, molto più
arcaica e che non è materia di legislazione, che non è stata decretata, che è letteralmente
anonima». Questo significa che «si è presi in prima persona in una storia, non
si può fuoriuscire dalla storia in cui si è per prendere una posizione metalinguistica
e dominare l’insieme. Si è sempre immanenti a delle storie in corso di
svolgimento, persino quando si sta raccontando una storia a un altro».
Inabissate nella tessitura del racconto, le genti della società
dipolare non si caratterizzano per le loro opere grandiose ma, piuttosto, per le
trame ordinarie con cui si strutturano, i dipoli in cui incessantemente
s’iscrivono. Il che consente di considerarle come enti e come entità: in quanto
persone e, al contempo, in quanto margini i cui versanti fluttuano nel campo
magnetico referente-destinatario. Li dove «nessun discorso si presenta come
autonomo ma al contrario sempre come un discorso ricevuto» la cui ripetizione
«non fa che marcare la pulsazione πρότερον/ὕστερον [proteron/hysteron], uno due, uno due, che è la diade» (Lyotard 1979: 84).
Oscillazione dipolare di sistole e diastole, arsi e tesi, apertura e chiusura, ποιήματα [poiemata] e παθήματα [pathemata], creazioni e passioni: che procede dal pagus, di cui accoglie l’eco e rielabora le tracce, e prosegue
nel pathos, che la investe e con cui deve confrontarsi. Motilità
sociale elementare, «emblema della vita indaffarata e ritmo sincopato della
salute, ombra portata dalla condizione critica sull’esperienza, ciò che
l’antropologia chiamerebbe complessione giudiziosa. Giudicare, che significa
scavare un abisso tra le parti, analizzando il loro dissidio» (Lyotard 1979:
84). Costituzione dipolare che esclude qualsivoglia neutralità: l’essere neuter, né l’uno né l’altro, il porsi al di sopra delle parti
la cui illusione introduce solo confusione, dubbi, incredulità. E affianca
l’affermazione del libero arbitrio, forza motrice dell’idea stessa che si possa
decidere della propria posizione in modo deliberato, svincolati da ogni
rapporto, con la retroazione del servo arbitrio: in quanto, indicando lo spazio
all’interno del quale ci si può muovere senza alcun impedimento, l’ordinamento
giuridico espone la determinazione individuale ai suoi propri confini e la
trasfigura.
Le minacce degli uni e le ritorsioni degli altri incedono
allo stesso modo, in alternanza sincro-diacronica. Non si può dire che i
secondi reagiscano ai primi o viceversa. Sono perfettamente affiatati, giocano
lo stesso gioco della sega a nastro, in cui ognuno è zimbello degli altri, e si
dettano reciprocamente le condizioni. Rispettare e far rispettare la presenza
inevitabile del dissidio richiedono, infatti, che gli antagonisti convertano
congiuntamente l’impotenza della liberta senza regole in liberta secondo
l’autorità impersonale del δεσπότης νόμος [despotes nomos]: convengano che, per umana e imperfetta che sia, la
legge rappresenta l’affermazione della vita di fronte alla morte, della civiltà
di fronte alla barbarie. Testimonino insieme «non soltanto che delle leggi sono
state date, ma che è necessario che delle leggi ci siano». Che «c’è un gioco
linguistico facente appello all’ordinare e all’essere obbligati», e che
«bisogna giocarlo». Che, infine, «ciò che è importante in questo gioco
linguistico è l’obbligazione come relazione pragmatica e non il suo contenuto»
(Lyotard 1979: 141).
Lex e nomos si affrancano così dall’orizzonte etico-politico che
trova nel dissidio il pretesto per incoraggiare un potere arbitrario
incondizionato e procedono in direzione del linguaggio prescrittivo-pragmatico
del limite: inteso come «forza cristallizzata» che «filtra e circoscrive»,
include ed esclude, «secondo un certo numero di codici il cui insieme definisce
il perimetro della cittadinanza» (Lyotard 1973: 55). Si emancipano, in altre
parole, da un presupposto che si prospetta come autoistituente e approdano a un
ordinamento suffragato dalla validità di legislazioni legalmente promulgate,
nonché dal diritto di governare unicamente da parte di chi, traendo potere
dalla legge, si sottomette alle sue disposizioni: si vincola, cioè, alla
reciprocità del rapporto normativo fra coloro che governano e la popolazione di
cui sono parte. Insieme di regole giuridiche e non giuridiche che costituiscono
la pulsazione del potere politico e fungono da sua soglia dirimente. Sistema di
direttive particolari che obbliga allo stesso modo chi amministra i pubblici
poteri, i funzionari preposti e tutto il corpo sociale: gli universi cives ai quali l’ordinamento stesso e dipolarmente subordinato.
Prendersi cura dei margini che uniscono e separano
definisce quindi l’autorità della legge e ne attesta la liceità. Ciò che
garantisce liberta e rispetto dei diritti e, infatti, l’accento posto sulla
relazione dipolare tra libero e servo arbitrio: misura d’interferenza tra, da
un canto, rivendicazione d’intransigenza e perseguimento solitario della
propria unicità e, d’altro canto, piano relazionale della decisione politica e
dell’obbligazione giuridica. Il che vuol dire che nelle società dipolari la strutturazione
delle collettività non s’incardina unicamente sulle due focali di vis delectus ed aequitas: scelta ed equilibrio, volontà e responsabilità [8].
Ma, accanto a queste due, orbita ancora una possibilità ulteriore: una piega di
dispersione diakosmica
che schiva la sincronia del tenersi
insieme e insegue delle zone di rifiuto e di leggerezza. Alla liberta di
decisione [βουλή boule] e ai vincoli che instaura, alla sovranità sottoposta
all’assunzione di un obbligo, alla dipolarità tra i kosmoi idios e koinos si affianca pertanto la linea d’ombra del mikros diakosmos assicurante un perdurante diritto alla fuga e alla
diversione: piccoli spazi di non comunicazione, d’interruzione, per sfuggire al
controllo e alla sua oppressione.
La legittimità dello stato di diritto è, in conclusione,
inderogabilmente ancorata all’arte della parola come scienza civile: alla
salvaguardia di pubblico dibattito e libera circolazione delle idee come
possibilità di esprimersi e di prendere posizione. Presenza di spazi fisici e
simbolici dove opinioni politiche differenti, punti di vista contrapposti,
interessi divergenti e discordanti definizioni di realtà possono liberamente
emergere, presentarsi, fronteggiarsi e rispondere delle posizioni assunte. Ma
dove può anche insorgere una singolare curva di distrazione tesa non ad
affrontare i rapporti di forza ma a evaderli: piuttosto che a carezzare o impugnare
il principio di realtà, a eluderlo e depistarlo.
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[1] «Λέγω δε νόμον τον μεν ίδιον τον δε κοινόν» Lego de nomon ton men idion, ton de koinon» (Aristotele, Ars rhetorica, I, 13, 1373b, 4: 62).
[2] «Ίδιον μεν τον εκαστοις ώρισμενον προς εαυτούς» [Idion men ton ekastois orismenon pros autous] (Aristotele, Ars rhetorica, I, 13, 1373b, 4-5: 62-63).
[3] «παρά πάσιν όμολογείσθαι δοκεί» [Para pasin omologeisthai doxei] (Aristotele, Ars rhetorica, I, 10, 1368b, 9: 48).
[4] «Diese praktische Überzeugung oder dieser moralische Vernunftglaube ist oft
fester als alles Wissen» (Kant 1800a: 110).
[6] «Illa autem est civitas popularis (sic enim appellant) in
qua in populo sunt omnia» (Cicerone, De re publica, I, 26, 42: 200).
[7] «Res publica res populi, populus autem non omnis hominum coetus quoquo modo
congregatus, sed coetus multitudinis iuris consensu et utilitatis communione
sociatus» (Cicerone, De re publica, I, 25, 39: 198).
[8] Facendo derivare la nozione di legge (nomos) dal verbo νέμειν [nemein], che indica
l’atto del suddividere, dell’aggiudicare, nel De legibus (I, 6, 19: 428-429) Cicerone spiega che i Greci ne
incardinano il senso a partire «dalla questione della distribuzione dovuta a
ciascuno di ciò che gli appartiene». I Romani, continua, si comportano in modo
diverso perché la fanno provenire da lego (eleggo, scelgo). Per questa ragione gli uni fanno
riferimento all’equità (aequitas) e
gli altri alla decisione (vis delectus)
entrambi intrinsecamente connessi con la legge (proprium tamen
utrumque legis est). «Graeco putant
nomine (νόμον), a suum cuique tribuendo,
appellatam; ego nostro a legendo. Nam ut illi aequitatis, sic nos delectus vim
in lege ponimus, et proprium tamen utrumque legis est» (cfr. anche Pohlenz 1955: 166-167; Quaglioni 2002: 30;
Schiavone 2005: 256).
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