mercredi 13 août 2014

Carlo Grassi


Res publica id est res populi



1. Reviviscenza della dottrina del diritto naturale; 2. Collegamento intrinseco tra status rei publicae e naturalis ratio; 3. L’eredità greca e latina: dal ius naturale all’aequitas rudis; 4. Res publica id est res populi


1.    Reviviscenza della dottrina del diritto naturale
All’inizio del XII secolo il numero di uomini in grado di preparare relazioni e documenti è abbastanza ristretto. E ugualmente ridotto appare l’apparato istituzionale. Tuttavia parte del generale rinascimento europeo risiede nel formidabile incremento del desiderio di apprendere: migliaia di giovani si affollano nelle scuole e poi prendono servizio presso funzionari laici o ecclesiastici. Alla fine del XII secolo la carenza di cancellieri e contabili è praticamente cessata. All’interno di questo movimento generale, un tipo di educazione richiede una menzione speciale: lo studio del diritto. La maggior parte dei giovani prende corsi solo nelle arti, che enfatizzano il corretto uso del linguaggio e della logica. Tra quelli che arrivano agli studi superiori, di gran lunga la grande maggioranza si iscrive alle scuole giuridiche. Studiano diritto canonico, diritto romano (come trovato nel Corpus Iuris Civilis di Giustiniano), o entrambi. I maestri di queste scuole sono celebri in Europa. Importante nello studio del diritto romano è che esso fornisce una serie di categorie nelle quali nuove idee possono essere inserite e un vocabolario mediante il quale possono essere descritte (cfr. Artifoni 2003).
In questo periodo storico, la progressiva formazione degli Studia e delle Università conduce alla crescente diffusione di centri in cui un grande numero di persone si raccoglie per svolgere un lavoro intellettuale. Focalizzando inizialmente le ricerche soprattutto in ambito giuridico, il movimento culturale che ne scaturisce perviene a risultati che proiettano il mondo occidentale nel quadro logico-concettuale proprio della modernità. Tale movimento, infatti, conia un nuovo paradigma politico che assegna al popolo la supremazia su ogni altra autorità e configura il potere come entità impersonale e astratta: edifica le basi teoriche atte a codificare un inedito quadro istituzionale i cui elementi caratterizzanti sono costituiti dal valore sovrastante delle leggi, dalla distribuzione equilibrata di comandi e funzioni, dal conferimento d’incarichi agli individui in base alle loro competenze tecniche o amministrative e dall’assegnazione di prerogative non ai gruppi strutturati, ma alle persone in quanto tali: l’abitante delle civitas entra a far parte della cittadinanza come individuo singolo, e come tale presta il giuramento di cittadino.
Così, all’interno di una cornice che prevede una nuova preminenza dell’utilitas communis e della necessitas, viene forgiato un principio di autorità distinto sia dalla legge guerriera del più forte che dalla maestà trascendente del religioso e del soprannaturale. Un principio di tipo positivo che concorre sensibilmente all’avvento delle condizioni per il dispiegamento del processo di secolarizzazione delle forme del potere che tante consistenti ripercussioni comporta sulla tematica della giustizia, sulla nozione di sovranità politica e sull’idea stessa di Stato.
Ne viene fuori un progetto di vita sociale che contrappone il valore del lavoro a quello dell'eroismo, la pratica della negoziazione e della controversia intellettuale al combattimento violento e allo scontro fisico: il dialogo paritario tra gli uomini, diretto e indiretto, all’ordalia, la comunicazione da subalterni con un principio onnisciente e onnipotente.
Per giungere a questo esito è necessaria la previa affermazione di un passaggio cruciale che riguarda la reviviscenza della dottrina del diritto naturale.
Domicio Ulpiano, giurista del III secolo d.C. le cui norme sono conservate nel Digesto (Digesta seu Pandectae) e nelle Istituzioni (Institutiones Iustiniani sive Elementa) di Giustiniano, inaugura una concezione tripartita del diritto privato che aggiunge il ius naturale alla suddivisione binaria tra ius civile, diritto vigente nella civitas valevole solo per i cittadini romani, e ius gentium, diritto applicabile anche agli stranieri.
A partire dall’XII secolo, i Glossatori, studiosi della codificazione di Giustiniano, proprio da loro denominata Corpus Juris Civilis, traggono da questo Corpus una logica giuridica che costituisce il primo mattone della concezione politica che si afferma nella modernità. Stabiliscono, infatti, che alla base di ogni Stato risiede la formula per cui «ciò che riguarda tutti, deve essere approvato da tutti»: quod omnes similiter tangit, ab omnibus comprobari debet  (Codex Justiniani 5.59.5.2.). Con ciò derivano un postulato profondamente rivoluzionario a partire dal quale tutto il corso della storia successiva risulta completamente trasformato: il principio per il quale il popolo è il titolare del potere ed ogni potere proviene direttamente dal popolo.
Successivamente, all’interno del quadro universitario in pieno rigoglio, un numero sempre più elevato di docenti e studenti s’impegna nella lettura dei libri del Corpus iuris Civilis dando luogo in tal modo alla rifioritura del diritto romano. Con ciò prende avvio anche un altro evento decisivo: la rivalorizzazione della differenziazione ulpianea tra ius civile e ius naturale. Suddivisione che distingue in modo netto i precetti giuridici e le consuetudini normative dalle leggi di natura. Mentre queste ultime, infatti, sono sempre le stesse ovunque e perennemente, i primi risultano differenti a seconda delle genti che li formulano e delle epoche storiche in cui vengono messi a punto.
Il ius naturale trova la sua genesi nel condursi logicamente: nell’esempio riconosciuto come benefico e quindi ripetuto e reiterato fino a farsi agire comune. Non riguarda, tuttavia, le tradizioni di un popolo, ma solo le abitudini che, in quanto possono dirsi condivise dagli esseri in ogni tempo e in ogni luogo, devono essere reputate come connaturate con la vita e pertanto oggettivamente giuste. Prospettandosi nei termini di un diritto comune a tutti i popoli che si fonda sulle ragioni dell’esistenza stessa ed è espressione della razionalità umana, la concezione del diritto naturale rende possibile che enunciati come «tutti gli esseri nascono liberi» o « tutti gli uomini sono uguali» siano presi in considerazione come verità inconfutabili. Secondo le parole stesse di Ulpiano (Digestum, L, 17, 32; I, 1, 4): «per diritto naturale tutti nascono liberi», «quanto al diritto naturale tutti gli uomini sono uguali».
Rende concepibile di conseguenza l’idea stessa che esistano dei diritti fondamentali dell’uomo e che si tratti di diritti naturali e quindi inviolabili, inalienabili, imprescrittibili e non negoziabili. Come segnala lo storico e antropologo Alain Boureau (2002, p. 1465), nel suo Regimen principum (1278), Egidio Romano (1243ca. - 1316) ne «fornisce una lista di cui solo i primi tre termini provengono da Aristotele: sopravvivenza individuale assicurata dall’alimentazione e dall’abbigliamento, sopravvivenza della specie tramite la riproduzione, difesa dei beni e delle persone», nonché salvaguardia «del linguaggio e della comunicazione».
In quanto fondamentali, tali diritti mettono in comune, includono, non possono essere solo di qualcuno o di pochi: riguardano tutti. Presuppongono quindi che l’uomo non sia considerato libero in rapporto alla sua estrazione etnica, sociale o culturale, bensì semplicemente in virtù della sua vis existendi: per il mero fatto di essere una persona, una creatura particolare, un individuo singolare.
In specifico, il terzo diritto indicato da Egidio, che riguarda il suum cuique tribuere, l’obbligo di dare a ciascuno il suo, è molto rilevante perché mette in luce l’uguale diritto di tutti alla più estesa libertà fondamentale: quella relativa alla protezione di se stessi, del proprio corpo e dei propri beni. Questo diritto, la cui descrizione è presente in Ulpiano, precorre e rende possibile l’ingiunzione di habeas corpus ad subjiciendum et recipiendum: l’intimazione di esibire il corpo che obbliga tutte le autorità pubbliche a lasciar esaminare fisicamente le persone recluse perché sia verificato che sono ancora in vita, valutata l'accusa loro mossa, accertate le circostanze della cattura e contabilizzati quantità e qualità dei beni in loro possesso al momento dell'arresto in modo tale da impedirne la sottrazione abusiva. Il quarto diritto naturale, aggiunto da Egidio, poi, ha un carattere particolare di anticipazione perché contiene, in nuce, le future dichiarazioni sul diritto alla libera espressione.
La questione del diritto naturale non è affatto semplice. Su questo tema, infatti, si apre una disputa molto accesa tra gli specialisti diritto canonico e quelli di diritto civile: tra chi lo fa combaciare con la Divina voluntate e coloro i quali sostengono che, pur avendo un certo numero di corrispondenze con la sfera del sacro, non ne è parte integrante e non vi può essere assimilato.
Nel Decretum pubblicato intorno al 1140, il giurista e teologo Graziano suddivide la giurisprudenza in diritto naturale e diritto umano identificando il primo con il diritto divino e il secondo con quello consuetudinario. Afferma, poi, che il secondo deriva dal primo e ne costituisce un’applicazione e un interpretazione adatte ai tempi e ai luoghi. Nel Polycraticus pubblicato intorno al 1176, il vescovo di Chartres Giovanni da Salisbury, afferma che la legge vive nella comunione di ius et aequitas: l’equità cioè non è nient’altro che la legge di Dio.
Molti altri proclamano invece che a costituire la fonte del diritto sono la natura e la consuetudine. Soprattutto per i giureconsulti laici, in effetti, la legge di natura rappresenta la madre di tutte le leggi umane: la prima radice da cui procedono, in prima battuta, le consuetudini, ottime perché non solo ancorate nel comportamento usuale delle genti, ma anche più remote e quindi più venerabili delle leggi scritte; e, in seconda battuta, gli Statuti, approvati con il consenso diretto ed esplicito della voluntas populi.
Si distinguono dunque due significati di equità: uno religioso e uno umanista, uno fondato sull’asse teologico-morale della misericordia, l’altro sul fulcro più propriamente giuridico-filosofico del ius rationale.
Nella prima accezione per la quale l’equità è intesa in stretta conformità con la volontà di Dio, «vera iustitia misericordiam habet», la vera giustizia è congiunta alla compassione, la carità cristiana rappresenta un principio che predomina sul diritto e la giurisprudenza civile si dissolve di fronte alla prospettiva del noli iudicare in quanto «humana iustitia divinae iustitiae comparata, iniustitia est». Così, messa in connessione con relaxaxio legis in casu speciali, con dispensatio, con indulgentia e con benignitas, l’aequitas non è più semplicemente uguale a iustitia, ma si manifesta piuttosto come la benevola interpretazione della legge.
Nella seconda accezione, invece, l’aequitas indica la possibilità umana di mantenere l’ordine e la giustizia, lascia spazio alla misericordia quindi solo in situazioni veramente straordinarie e fa appello al modello ciceroniano di uguaglianza: considera che il fine supremo del diritto è di applicare pari trattamento in causa pari, di dare uguale protezione ad interessi ugualmente meritevoli, di contemperare negli inevitabili conflitti degli interessi umani le diverse esigenze.


2.    Collegamento intrinseco tra status rei publicae e la naturalis ratio
Presupponendo che la giustizia sia riconosciuta dalla ragione perché iscritta nel cuore stesso degli uomini, ciò di cui la coscienza darebbe testimonianza, il diritto naturale non svigorisce, ma rafforza il ius civile, in quanto stabilisce un collegamento intrinseco tra l’ambito artificiale dell’ordinamento giuridico dello status rei publicae e la naturalis ratio, la ragione naturale che ne è ritenuta costituire la fonte diretta.
L’emergere del punto di vista dello ius naturale, inoltre, consente l’introduzione della diversificazione tra ordo ordinatus e ordo ordinans, tra una dimensione immanente del sistema politico incardinata sulla nozione di potestas e una trascendente imperniata sull’auctoritas. Dinamica per la quale, come compendia Marsilio da Padova (Defensor pacis, ca. 1340-42, I, XV, 1), il mero potere che amministra i visibilia e mutabilia della vita pubblica è subordinato agli invisibilia e inmutabilia e all’ambito di ratio et intellectus che li dirige e sovrintende al loro stato di cose. E, in quanto tale, è sottoposto all’imprescindibile riconoscimento da parte «dell’autorità legittima mediante la quale il popolo governa».
La questione dell’origine del potere comporta dei corollari molto importanti nell’assetto dell’organizzazione sociale. Se quest’ultimo è esclusivamente di derivazione divina, le società umane non possono scegliere liberamente di strutturarsi in un modo o in un altro, ma devono osservarne ossequiosamente il dettato. Quando, al contrario, viene compreso nel quadro del diritto naturale, se ne pone in risalto l’origine secolare e si localizza il suo principio basilare nel consenso popolare: s’individua la sua legittimità nella conformità con la volontà dell’universitas civium.
Valutato come criterio della legittimità del potere e limite all’azione politica dei governanti, l’apparizione di un diritto naturale dei singoli a partecipare alla sovranità legittima il diritto dell'intera collettività di essere assunta come soggetto di un patto sociale da stipulare con i governanti. Giacché, inoltre, una volta affermata la limitatezza e la revocabilità dei poteri ceduti, viene anche implicitamente condannato l'assolutismo e ne deriva direttamente la necessità di esteriorizzare con un atto formale di un documento scritto quelli che sono i principi fondamentali regolanti lo svolgimento della vita associata, imponendone il rispetto ai poteri che sono da essa costituiti, dando le necessarie garanzie a salvaguardia della comune libertà ed instaurando la sovranità del diritto là dove prima era l'imperio di uno.
La rinascita della teoria del diritto naturale consente, in primo luogo, che i comuni possano riconoscersi nel passato repubblicano di Roma. Come scrive il celebre cancelliere fiorentino Coluccio Salutati (1403, pp. 32-33), «quid enim est Florentinum esse, nisi tam natura quam lege civem esse romanum, et per consequens liberum et non servum? Proprium enim est romanae nationis et sanguinis, divinitatis munus quod libertas dicitur»: Che cosa significa infatti essere fiorentino, se non essere per natura e per legge cittadino romano, e per conseguenza libero e non schiavo? È infatti proprio della nazione e del sangue romano quel dono divino che si chiama liberta.
E, in secondo luogo, che la teoria politica riabiliti e attualizzi l’antico precetto del diritto romano per il quale il populus è l’ultima e definitiva fonte del legitime regere; e cerchi di trarne dei principi che cauzionino il nuovo modello democratico che i comuni cercano di affermare.
Ponendo il principio di legittimità popolare a limitazione delle pretese di sovranità di principi e papi, tale nuova concezione dà così origine alla civiltà democratica moderna la cui rivoluzione copernicana consiste appunto nell’introdurre come cardine inderogabile l’idea che la volontà comune della collettività costituisca un presupposto superiore a qualsiasi altra autorità. È pertanto nella scelta provvisoria e variabile dei cittadini che risiede il potere del Governo in quanto pars principans, parte che cioè governa tutte le altre parti. Potere che rimane sempre e comunque potere delegato ed è dunque subordinato alla volontà sovrana del popolo: vero detentore della potestas factiva institutionis principatus e pietra angolare di tutto l’edificio politico.
Rafforzando la possibilità d’invocare la legge naturale come predominante rispetto a quella di origine divina, si comincia quindi a introdurre l’idea che chi governa deve giustificare il proprio dominio e motivare la propria autorità non di fronte a un referente astratto ma dinanzi al soggetto concreto dell’universitas civium: dinanzi al corpo sociale composto dai membri della comunità. S’inizia a mettere in discussione che la legittimità della maiestas vada reperita esclusivamente nella sua sottomissione al principio del sacro. Si prende a contestare la concezione secondo la quale è riconosciuta come ammissibile unicamente quella violenza che si conforma all'ordine voluto da Dio. E si opera una destrutturazione profonda dell’unità medioevale della respublica christiana giacché, rendendo non più indispensabile la consacrazione spirituale dei governanti, si scardina internamente l’intima solidarietà tra imperium e sacerdotium quali principi d’ordine diversi ma facenti capo alla medesima unità complessiva: ripartizione delle funzioni per la quale Papa e Imperatore non sono contrapposti tra loro in modo assoluto, ma collaborano per distribuirsi i diversi ordines la cui complementarietà organizza e satura l’insieme.


3.    L’eredità greca e latina: dal ius naturale all’aequitas rudis
All’epoca in cui il ius romanum e le leges romanae rifioriscono, la forza del diritto consuetudinario è troppo grande per essere negata e le leges alle quali tutti risultano soggetti, compresi re, imperatori e papi, sono anzitutto quelle non scritte, approvate dall’uso e modificabili attraverso il consensus utentium.
Tuttavia a un certo punto le cose iniziano a cambiare. È possibile, infatti, osservare che ormai, con la fine del tredicesimo secolo, si è certamente ricominciato a considerare la consuetudine non scritta come cosa non completamente identica, nella sostanza, alla lex scritta.
In altri termini, a partire da questo momento storico, proprio all’interno del quadro universitario, sotto l’influsso del dettato Ciceroniano, viene inaugurata una biforcazione concettuale gravida di conseguenze molto rilevanti sul piano sia della riflessione teoretica concernente la filosofia giuridica che dell’esperienza pratica in rapporto alla vita politica. Alla differenziazione ulpianea di ius naturale e ius civile viene sovrapposta la bipartizione della giustizia tra aequitas ius approbatum: tra la legge concepita secondo la prospettiva greca come equità e la legge intesa al modo latino come decisione vincolante.
Facendo derivare la nozione di legge (nomos) dal verbo nemein, che indica l’atto del suddividere, dell’aggiudicare, nel De Legibus [(1), I, 6, 19], Cicerone spiega come i Greci ne incardinino il senso a partire «dalla questione della distribuzione dovuta a ciascuno di ciò che gli appartiene». I Latini, continua, si comportano in modo diverso perché la fanno provenire da lego (eleggo, scelgo). Per questa ragione, gli uni fanno riferimento all’equità (aequitas) e gli altri alla decisione (vis delectus) benché ambedue siano intrinseche alla legge («Graeco putant nomine (νόμον) a suum cuique tribuendo appellatam, ego nostro a legendo; nam ut illi aequitatis, sic nos dilectus vim in lege ponimus, et proprium tamen utrumque legis est»).
Dunque, la teoria del diritto naturale, procedente dalla proclamazione di un diritto che trascende la dimensione della temporalità e della storia e che è antecedente ad ogni concreto ordinamento della comunità politica, del quale costituisce il metro della legittimità, viene intrecciata con la suddivisione della vis aequitatis in base a due aspetti distinti: da una parte l’aequitas rudis, equità bruta, informe, indeterminata, dall’altra l’aequitas constituta, formulata per esteso, stilata nero su bianco. Con l’effetto che, proprio in virtù di quest’ultima differenziazione per la quale l’aequitas viene ripartita in naturalis e in civilis, cominciano i prodromi della discriminazione tra potere tradizionale epotere legale-razionale concepiti come connessi da una relazione genealogica.
In altre parole, la tematizzazione del contrasto tra la lex, la norma giuridica, e l’aequitas rudis qualificata, secondo le parole di Ennio Cortese (1964, II, p. 320), come un criterio sostanzialmente metagiuridico non ancora assunto come regola positiva, consente di riconnettersi al postulato del diritto romano per cui anche la forza della consuetudine è riconosciuta come base giurisprudenziale e di proclamare che il punto di avvio del diritto concerne la commistione di natura e usi tramandati. Infatti, mettendo in risalto come siano più antiche delle leggi e anteriori al legislatore, tale prospettiva descrive le consuetudini nei termini di una realtà oggettiva, le definisce giustizia allo stato grezzo e le ritiene parte del fondamento normativo da cui deve procedere la legge scritta: materia bruta ma preziosa dalla quale le norme stesse vengono ricavate.
Si comincia così a stabilire un rapporto genetico diretto tra il ius consuetudinarium, in quanto manifestazione fondata sulla credenza nel carattere inviolabile delle tradizioni valide da sempre, e il ius vero positivum, come espressione del giudizio e della decisione. Tra, in primo luogo, un’origine generatrice, istituente e legittimante; e, in secondo luogo, l’ordinamento normativo fondato sulla validità di legislazioni legalmente promulgate, nonché sul diritto di governare di coloro che, traendo potere dalla legge stessa, sono subordinati alle sue condizioni. Insieme di regole giuridiche che fungono da limite al potere politico: sistema di direttive generali che obbliga allo stesso modo chi amministra i pubblici poteri, i funzionari preposti e l’universitas civium.
Questo perché uno dei tratti decisivi che caratterizzano questi secoli rispetto ai precedenti risiede proprio nella riattivazione del dettato Ciceroniano per il quale anche i governanti sono assoggettati all’autorità del potere tradizionale e dello Stato di diritto, con garanzie per i cittadini attraverso norme giuridiche previe e precise. Si tratta, in breve della domanda retorica che Cicerone si pone nel De Re Publica (1.32.49): «quid est enim civitas nisi iuris societas civium?», che cosa é infatti una società se non la partecipazione ad un diritto comune? Rispondendo con ancora maggiore evidenza più oltre nel Somnium Scipionis (6.13.13): «concilia coetusque hominum iure sociati, quae civitates appellantur», si chiamano città le unioni e aggregazioni di uomini associate sulla base del diritto (cfr. anche Salutati, 1403, p. 27).
Prendiamo, per esempio, la celebre lettera datata 28 novembre 1373, inviata sul finire della sua vita da Francesco Petrarca a Francesco di Carrara signore di Padova. In questa lettera che, come scrive il grande petrarchista Giuseppe Fracassetti (1870, p. 381), «è forse la più lunga di tutte le sue lettere, e che in alcune edizioni è posta a parte col titolo di Trattato sull'arte di ben governare lo Stato», Petrarca (Senili, XIV, 1, pp. 339, 340) cita la Repubblica di Cicerone, «probabilmente a te non ignota», secondo la quale nulla è più caro a Dio «quam concilia coetusque hominum iure sociati, quae civitates appellantur». E, poi, aggiunge: «volgiti sempre grato e devoto a questo libro che elargisce ogni bene, ogni virtù» (virtutum bonorumque omnium largitori devotior fias atque in dies obsequentior).
In altri termini, nel contesto sociale e giuridico comunale si concretizza una ripresa delle definizioni ciceroniane di popolus e di civitas intesi entrambi come societas: come risultato di un contratto consensuale volto alla realizzazione della communio utilitatis. L’unilateralità del vincolo dispotico fra il diritto del governante e l’obbligo di ubbidirgli comincia quindi a venire globalmente sostituita con l’idea della reciprocità del rapporto giuridico fra chi governa e la popolazione di cui egli stesso è parte. E, così, per la teoria giuridica e per il pensiero politico che si affermano compiutamente nel XIV secolo, il criterio primo e fondamentale di giustificazione del potere risiede nella conformità al principio di giustizia: nel paradigma per il quale i principi inviolabili di giustizia costituiscono la fonte e la misura della legittimità del potere.
Come spiega lo storico del diritto Mario Galizia, (1951, p. 45): «nell'ambito del comune si ricostituisce l'ente politico sotto la forma di universitas territoriale, che si identifica non con un singolo governante ma con l'intero popolo. La vita comunale è regolata prevalentemente da statuti emanati dall'assemblea e rivolti non ad un gruppo di sudditi ma astrattamente alla generalità dei cittadini. All'interno dell'associazione il problema degli organi di governo e quello della condizione giuridica dei sudditi sono poi risolti con l'attuazione del principio democratico e del principio legalitario. Tutta la vita comunale affonda le sue radici nel popolo. Il magistrato è strettamente subordinato alla volontà popolare; egli non può agire che in conformità della legge; se i suoi atti sono compiuti contra ius sono nulli. Egli è pienamente responsabile del suo operato».
È in correlazione con ciò, infatti, che comincia ad emergere la nozione moderna di potestas populi e nascono i primi Statuti dei territori comunali che non sono pronunciati nel nome dei supremi principi religiosi e dei loro rappresentanti sulla terra, ma in quello delle corporazioni artigiane, dove sono mescolati datori di lavoro e lavoratori dipendenti, e della città come realtà politica sufficiente e in quanto populi regno. Negli Statuti dei comuni, delle università, delle corporazioni, la facoltà e possibilità di agire, di pensare, di scegliere in modo autonomo è garantita dall’azione concessa al cittadino contro il funzionario che violi la legge, libertà che può essere modificata soltanto con legge generale, con quella legge che emana dall'assemblea di tutti i cittadini.
Nelle universitates comunali, inoltre, per poter assumere le loro cariche, i consoli e i podestà devono giurare ufficialmente di agire bene et legaliter e secundum ius. Giacché, come attesta la Lectura super Digesto Veteri di Cino da Pistoia (1270 – 1336), la conformità al diritto e al principio di giustizia rappresenta il criterio primo e fondamentale di ogni giustificazione e limitazione del potere». Agli inizi del XIV secolo, infatti, Cino sostiene il principio della sottomissione del principe alla legge e, a distanza di una generazione, il suo allievo Bartolo (1314 – 1357) ne ripete la dottrina, estendendo ad ogni forma di potere il principio della sottomissione alla lex, la norma giuridica.
Insomma, rielaborando l’equazione giusromanistica di populus uguale società di cives contratta per la utilitatis communio, rispetto alla Città-Municipio antica, il Comune introduce come novità rivoluzionaria l’idea della società giurata tra cittadini: ogni Comune è, pertanto, letteralmente, una res publica. Sulla base dei suoi Statuti, in effetti, il popolo si presenta come il vero dominus della civitas che ne assicura la giustizia sociale, ne preserva la pace politica e ne favorisce lo sviluppo economico: colui il quale, esercitando l’auctoritas suadendi e delegando la potestas iubendi, le dona vita, la dirige, la rifornisce di approvvigionamento alimentare, la dota di assetto urbanistico, la munisce di difesa militare.


4.    Res publica id est res populi

Res publica res populi, populus autem non omnis hominum coetus quoquo modo congregatus, sed coetus multitudinis iuris consensu et utilitatis communione sociatus. eius autem prima causa coeundi est non tam inbecillitas quam naturalis quaedam hominum quasi congregatio Quare cum penes unum est omnium summa rerum, regem illum unum vocamus, et regnum eius rei publicae statum. cum autem est penes delectos, tum illa civitas optimatium arbitrio regi dicitur. illa autem est civitas popularis—sic enim appellant -, in qua in populo sunt omnia Lo Stato (res publica) è la cosa del popolo (res populi, bene comune del popolo), e il popolo non è un qualsivoglia agglomerato di uomini riunito in qualunque modo, ma una moltitudine associata in base all’accordo di osservare la giustizia e alla comunanza d’interessi. (coetus multitudinis iuris consensu et utilitatis communione sociatus). E la causa prima di questa riunione é non tanto la debolezza dei singoli quanto una naturale disposizione degli uomini a vivere insieme. Quando tutto il potere si riassume in un uomo solo, chiamiamo re quell'unico governante e regno una tale costituzione dello Stato. Quando, invece, risiede in alcuni prescelti, si dice allora che quella città è retta secondo il volere degli ottimati. Democratica (civitas popularis) - così si suol dire - è quella città nella quale tutti i poteri risiedono nel popolo. Cicerone, De Re Publica

La prospettiva che si fa strada con la dinamica fin qui descritta implica l'abbandono della fede nei miracoli e l’attribuzione delle cause degli avvenimenti storici alle azioni politiche dei popoli. Tende pertanto a confutare la teoria che considera la società come un sistema organico di ordines, ciascuno con le sue prerogative, i suoi doveri, i suoi officia, fissato in eterno dalla provvidenza divina. E contesta l’identificazione dello Stato con il risultato ineluttabile di motivazioni etico-religiose votate a obiettivi ultramondani. Favorisce, invece, una prospettiva che qualifica l’organizzazione sociale come un progetto di ricerca collettiva da parte di liberi individui aspiranti a un benessere da raggiungersi hic et nunc nell’esistenza intramondana. Inoltre, fondando il governo sul consensus populi e la giustizia sulla codificazione di norme giuridiche positive, sull’aequitas redacta in praeceptionem, sive scripta, sive consuetudinaria, consente alla civiltà comunale d’interrompere il nesso di continuità tra lo Stato e l’imperium per instaurare, sulle orme di Cicerone (Rep., 1.25.39), una nuova equivalenza tra res publica e res populi.
Si tratta di un vero salto logico che si articola in due livelli:
i.     la distinzione fra repubblica e non-repubblica (il regnum);
ii.    la distinzione fra forme diverse di repubblica (popularisoptimatiumregalis, democratica, aristocratica, monarchica).
Lo Stato moderno, che ha come funzioni principali la produzione del diritto e l’azione a tutela del suo rispetto, finisce quasi per coincidere integralmente con il proprio ordinamento giuridico che non può impedirsi di essere unitario e coerente. In esso la coesistenza di molteplici diritti è sormontato dall’affermazione della sovranità popolare. Dove vige il suffragio universale, la totalità dei cittadini ha gli stessi diritti e doveri e non appare giustificato favorire o sfavorire un gruppo sociale rispetto a un altro.
Nelle universitates proto-moderne al contrario, convivono senza eccessive contraddizioni diritti diversi per origine e disparati per campi di applicazione: differenti a seconda che si riferiscano a membri delle istituzioni religiose, abitanti delle città, sudditi dei regni o dell’impero. Tale pluralismo, per il quale i diritti conferiti agli individui s’integrano con quelli legati all’appartenenza a gruppi e organizzazioni, stabilisce una dinamica in cui si contrappongono e controbilanciano poteri, ceti, corporazioni, collettività locali.
Tali associazioni, tuttavia, non si fondano su criteri dipendenti dallo status, dalla parentela o dall’appartenenza religiosa, ma principalmente da comuni interessi economici. Coinvolgono, in tal senso, i cittadini come individui singoli, favorendo così lo smantellamento dei gruppi sociali chiusi e gerarchicamente contrapposti. In quanto modelli esemplare di tali unioni, i comuni e le repubbliche possiedono forti somiglianze strutturali con uno Stato moderno. Sono, infatti, autocefali: indipendenti da poteri superiori, dotati di autogoverno, provvisti di amministratori e magistrati a titolo elettivo, muniti di una propria giurisdizione e di una propria legislazione statutaria.
La molteplicità delle fonti giuridiche risulta globalmente compatibile perché viene sormontata dallo ius commune. Come spiega Olis Robleda (1979, p. 8), infatti, «nei territori della penisola è in vigore il diritto romano come ius commune o ius generale, quasi ius proprium dell’Impero che si erge al di sopra dei vari regni europei, fino al XIII secolo in vigore come Ius primarium e poi, fino al XV secolo, come diritto suppletorio dei vari singoli diritti locali e particolari».
Il ius commune appare dunque come la più pura ed immediata attuazione dell’aequitas, superiore ideale di giustizia che armonizza sapientemente la lex saeculi con la iustitia naturalis. Tuttavia, tale lex generalis omnium figura come un ordine preesistente e sovrastante ed è, in quanto tale, in grado di attribuire potere e legittimità ai governi solo perché è riconosciuta dai popoli e incardinata nella societas humana universale. Traduce, cioè, l’ordine della natura in ordinamento politico-amministrativo solo in quanto si presenta come mens o ratio legis: consonanza di natura et instituto, ordinamento della ragione, esplicitazione dell’implicito razionale riposto nell’aequitas, nell’ epieikeia.
Come scrive il filosofo politico Roberto Esposito (1981, pp. 22-24), «al regime platonico-agostiniano di opposizione tra natura e legge, ius naturale ius civile, subentra un regime di analogia, di rimando, di convenienza. Legge, comando, Stato, in tanto vale, in tanto è riconoscibile come tale, in quanto non è né convenzione né decisione, semplice arbitrio di un volere umano o anche divino, capace di imprimersi dall’alto e dall’esterno: ma espressione positiva, radicata, garantita, fondata dalla propria inerenza a una ratio interna alle cose e ad essa definitivamente vincolata». Chi infrange questo accordo, «chi eccede o spezza questo delicato equilibrio tra natura e legge, chi sottrae la natura (come desiderio, istinto, volontà di potenza) ai confini giuridici della legge o chi, al contrario, strappa la legge al proprio fondamento naturale, è imputabile di tirannide». Questo significa, in primo luogo che, «legge, Nomos, non parla più il linguaggio etico-teologico dell’assoluto, ma quello giuridico-politico del limite. È limite, non arbitrio, a definire autorità e a condizionarne la legittimità». Limite inteso anche «come distinzione, differenza, pluralità degli organismi politici sempre più difficilmente organizzabili e circoscrivibili nel sistema centrato dell’imperium». In secondo luogo, infatti, «è proprio la secolarizzazione del nomos, la sua autonomizzazione, la sua dispersione nel mondo plurale delle civitates e dei regna, a richiedere un punto di riferimento naturale capace di ricondurre la realtà in movimento dei molti al principio universale dell’uno».
La ragione naturale, cioè, offre garanzia di ius et aequitas perché radica i presupposti di ogni regime politico nel libero consenso alla sua formazione da parte dell’intero corpo sociale e pone le basi di legittimità di ogni governo nell’equanimità di norme giuridiche determinate. Rinnega in tal modo la mera forza, la forza bruta che coincide integralmente con la bia, il vigore che è solo violenza perché viola le regole della società naturale, e riconosce unicamente la forza governata dal potere legittimo. Contesta il potere di fatto in nome del potere di diritto, cioè di in potere limitato dalla supremazia della legge: legittimo solo se collettivamente riconosciuto, pubblicamente accettato e accompagnato da consenso esplicitamente espresso.
L’aspetto essenziale della res publica romana, che esercita un’influenza realmente decisiva sulla successiva ideologia politica europea a partire dal Trecento, va dunque cercata nel più antico e più profondo principio che il populus e nessun altro che tutto il populus è la fonte ultima dell’autorità legale.
Questo aspetto si spinge fino al mondo moderno grazie alla rielaborazione che ne hanno compiuto i comuni cittadini del Trecento. Le democrazie moderne, come le descrive Karl R. Popper (1992, p. 65) sono, infatti, «innanzitutto delle istituzioni dotate dei mezzi per difendersi contro la dittatura. Non conferiscono un potere di tipo dittatoriale, un’accumulazione di potere, ma si sforzano di limitare l’autorità dello Stato. In questo senso, essenziale di una democrazia è la possibilità ch’essa offre di sbarazzarsi senza effusione di sangue di un governo che infrange i suoi diritti e i suoi doveri o la cui politica è giudicata cattiva o sbagliata».
In questo quadro, che vede l’Europa del XIII e XIV secolo fuoriuscire impetuosamente dal Medioevo, si attiva un sistema complesso di contenimento e di controllo del potere: vengono messe in piedi delle forme pre-costituzionali che mirano ad affrontare dei problemi cruciali la cui incubazione risulta determinante per l’avvento della modernità e il cui derivato costituisce una delle più importanti eredità che questo periodo storico ha lasciato alla civiltà successiva. Certo, rispetto al presente scenario, l’idea di costituzione come legge superiore rappresenta un passaggio ulteriore il quale, tuttavia, affonda le radici nella percezione, debitrice nei confronti del giusnaturalismo, che vi siano leggi più fondamentali di altre. Il che costituisce un ribaltamento totale rispetto all’opinione tradizionale dell’epoca precedente che vuole che il principe sia, nell’esercizio del potere sovrano, legibus solutus.
Quest’autentica rivoluzione ha trasmesso alla nostra civiltà un criterio fondamentale su cui porre l’universalità del diritto. L’idea che la forma stessa della legge risieda nella massima della generalizzabilità: nella sua prerogativa inderogabile di riferirsi a tutti gli individui e a tutti i casi senza esclusione alcuna. Facoltà per la quale essa si risolve, in definitiva, in una convenzione suscettibile di limitare tutti i poteri ancorandoli inderogabilmente al paradigma di bilanciamento del diritto-dovere e al postulato dei diritti simmetrici per il quale ognuno ha verso gli altri gli stessi diritti che gli altri hanno verso di lui
Vengono dunque poste all’ordine del giorno questioni inerenti la delimitazione dell’azione di governo e l’obbligo del suo pubblico riconoscimento, la partecipazione attiva della cittadinanza alla vita politica e la codificazione dei diritti fondamentali della persona. Si tratta della subordinazione del potere politico alla supremazia di un ordinamento giuridico forgiato dalla società stessa e non imposto d’autorità, insieme all’onere di ogni potestas di farsi legittimare tramite pubblico riconoscimento da parte dell’universitas civium; dell’avvio della trasformazione dei privilegi derivanti dall’appartenenza a un particolare gruppo sociale in prerogative puramente individuali, di concerto con la prima formalizzazione dei diritti fondamentali della persona come il diritto alla vita, alla libertà, alla parola, alla proprietà, concepiti come antecedenti ogni concreta comunità politica e trascendenti la dimensione della temporalità e della storia.
In questione c’è, inoltre, l’introduzione di forme embrionali di partecipazione alle decisioni collettive mediante il principio di rappresentanza e secondo la formula del coram proceribus aliorumque fidelium infinita moltitudine. La rappresentanza politica, la delega ad agire vice omnium indica, infatti, che l’autorità compete all’intera comunità: al corpo sociale formato da individui che, dopo discussione pubblica ed eventuali elezioni, danno vita a soggetti collettivi come universatescorporationescollegia; oppure s’inseriscono in istituzioni pubbliche come consigli, assemblee, parlamenti. Si occupano così di curare non solamente l’amministrazione della città, ma la regolamentazione del lavoro, delle professioni e del commercio.
Tutto questo conduce al superamento della logica delle caste, cioè di insiemi sociali chiusi e gerarchicamente contrapposti, e allo sviluppo all’interno dei comuni di associazioni che assumono una forte iniziativa politica per difendere gli interessi dei loro membri. Gruppi composti da singoli cittadini che vivono del proprio lavoro e svolgono azione politica a titolo individuale: che si arricchiscono con il commercio o l’artigianato e pongono i propri interessi come baluardo per la delimitazione del potere politico. Borghesi che cominciano ad elaborare una propria specifica definizione della politica che oppone lo spirito mercantile del tutto è negoziabile ai principi eroici drastici e senza mezze misure dell’ethos cavalleresco, l'attività gestionale e amministrativa alla tradizione militare delle aristocrazie, la concezione del potere come governo limitato dalla legge contro quella intesa come espressione della forza, come costrizione e dominio dei più forti sui più deboli.
Questo nuova formazione sociale, che comincia a emergere nel Trecento e che appare portatrice di una cultura delle istituzioni come luogo dell'attività politica in opposizione a una cultura della potenza militare connaturata alle tradizioni aristocratiche, prova a sperimentare uno Stato dove res publica id est res populiun sistema di governo pensato principalmente come un’organizzazione d’interessi collettivi retta da sue proprie regole riconoscibili e non determinata dalla qualità personale e familiare degli individui.
Dello stretto binomio fra libertà economica e politica sono ben consapevoli gli umanisti. Quando, infatti, per accusare il Duca Gian Galeazzo Visconti di voler esercitare la sua dittatura su tutta l’Italia, proclama la differenza del regime fiorentino su quello milanese, Coluccio Salutati rivendica per il Comune fiorentino il titolo di regime di popolo, di popularis civitas: di res populi. «Quid habet a nobis expetere? Quid poterat aut debat a communis potentia formidare? Nos popularis civitas, soli dedita mercanture sed, quod ipse tanquam rem inimicissimam detestatur, libera, et non solum domi libertatis cultrix, sed etiam extra nostros terminos conservatrix, ut nobis et necessarium et consuetum sit pacem querere in qua solum possumus libertatis dulcitudinem conservare» (Cosa ci si deve attendere da noi? Chi potrebbe o dovrebbe temere qualcosa dalla potenza del comune? Noi siamo una città di popolo, totalmente dedita al commercio e, cosa nemicissima e detestabile (per il Duca), libera, cultrice della libertà non solo in casa, ma anche fuori dai confini. Necessario e consueto sia per noi rivendicare la pace nella quale solamente possiamo godere della dolcezza della libertà).






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